C'è confusione attorno al Sinai, il monte della legge. Rilke, Kafka, Nabokov e, si direbbe, l'intera tradizione letteraria occidentale ha parlato a David Grossman, perché questi scrivesse Che tu sia per me il coltello (edito in Italia da Mondadori).
Che tu sia per me il coltello di David Grossman (del 1998) è una storia di dialoghi tronchi sotto gli occhi del lettore. Yair Einhorn, affascinato dalla visione di Myriam, comincia a scriverle e, confortato dalle sue risposte, ne fa voce importante del dialogo con se stesso e con il bambino che è in lui. Non c'è un momento in cui le voci si incontrino, in questa corrispondenza; le due storie, ormai mature e (quasi) saldate ciascuna sul proprio passato, non diventano mai affabulazioni reciproche: diventano sogni, sogni di perdite e di corpi che si incontrano, di corpi che non sanno stare insieme e non riescono ad allontanarsi.
Se dovessi esprimere un parere, di quelli schietti che molti lettori sono curiosi di conoscere, non direi che Che tu sia per me il coltello mi sia piaciuto. E, al di là della dimensione empatica, sempre sfuggente e personalissima, posso anche aggiungere ragioni più o meno obiettive: ho trovato il romanzo - assolutamente adulto (senz'essere mai senile) - qua e là verboso, appesantito da fronzoli narrativi che volevano essere chiarimenti, ma non aggiungono nulla. Per entrare un po' più nel merito, mi infastidiscono i riferiemnti di Yair ai contenuti della risposta di Myriam che noi non leggiamo e che ritardano solo il corso dei pensieri e della vicenda, senza nessun guadagno in questa rincorsa psicologica.
Nello stesso tempo, ho letto Che tu sia per me il coltello con una rapidità a me insolita negli ultimi mesi: l'ho quasi divorato. Mi ha lasciato nauseato, sconvolto... senza coinvolgermi fino in fondo. Chiuse le imposte dell'ultima pagina, bagnato dalla pioggia battente di ricordi e di parole, ho sentito subito l'esigenza di scrollarmi i brividi e il romanzo di dosso, come un peso accessorio. Di scrollarmi quelle pagine superbe, quella prosa improvvisamente capace di accendersi dopo un lungo vagabondaggio, dopo l'indugio che deve avere un assassino ancora inesperto, ma determinato.
Che tu sia per me il coltello è, infatti, un meccanismo a orologeria. Si avvita su se stesso come una molla che promette un'esplosione. Ci sono momenti - e la scena finale - in cui ha l'impatto di un capolavoro cinematografico, di quelli modernissimi, e momenti in cui la capacità pittorica degli stati d'animo ha del miracoloso (mi riferisco, in particolare, alla stupefacente sequenza centrale in cui si entra nel miracolo coniugale dei corpi e delle anime). Ma è la letteratura la cifra di questo romanzo e David Grossman ingoia, più ancora che ereditare, la tradizione otto-novecentesca della letteratura europea (ivi compresa l'esegesi biblica). Su questo terreno ho incontrato nuovamente David Grossman: non so, ho idea che il gioco valga ben più della candela e delle perplessità, farò ancora strada con lui, correrò almeno un po' dietro i suoi romanzi.