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La Villa è sempre stata uno dei punti focali della letteratura poliziesca, soprattutto del giallo classico, ovvero del mystery. Basti ricordare quella dei Dieci piccoli indiani dell’Agatha internazionale (qualche tempo fa è uscito La villa dei delitti di Martin Porlock, uno dei tre pseudonimi usati dall’inglese Philip MacDonald, Polillo 2008).
Qui, nella Villa Tre Pini sulle colline del lago Maggiore, invitati da Maria Carla, se ne riuniscono tredici (se non ho contato male) che porta pure sfiga. Tra questi troviamo Enea Zottìa, il vicecommissario della Questura di Milano, infelicemente sposato con Enza e legato ad una storia sentimentale con Serena, amica della padrona di casa, che abbiamo già trovato nei libri precedenti di Polillo. Timido, con la paura di essere inadeguato, “un certo impaccio nel parlare”, soprattutto di fronte ai rappresentanti dell’altro sesso. Capelli neri, occhi scuri, baffoni ispidi. Un vero uomo del Sud. La situazione si evolve, gli invitati sembrano avere qualche passato rapporto fra loro e nascondere pure qualche segreto. Chiaro che arriva il morto, all’inizio dato per dipartito in modo naturale (di mezzo il diabete e l’insulina). Ma c’è qualcosa che non quadra per il nostro vicecommissario un po’ depresso dalla situazione matrimoniale (se ne accorge anche il gatto) e dal rapporto difficile con Serena, attratta da un giovanotto piuttosto misterioso e affascinante. La storia va avanti con i soliti intrecci e i dubbi di Enea, insieme a quelli degli altri personaggi (dubito, ergo sum sembra il motto del libro), e ancora a più di metà percorso il caso sembra proprio chiuso. Polillo è lì che tira le fila del suo congegno giallistico passando veloce da un personaggio all’altro con le sue storie, i suoi problemi, uno che finisce all’ospedale, un altro morto ammazzato, un miscuglio di vicende che si intersecano, il passato drammatico che riemerge (due incidenti mortali), un SUV e un coltello che spariscono, il ricatto, la classica riunione finale con assassino incorporato (ma sarà proprio lui?). Incasinamenti sentimentali, una tristezza malinconica e deprimente che serpeggia lungo il racconto con il povero Zottìa che le becca da tutte le parti (si riscatta quando indaga). Misteri della scrittura e del mio disfacimento neuronale. Un libro che mi appare intrigante, ironico (vedere la figura bersagliata dello scrittore Ludovico Incerti, il cui cognome è tutto un programma), bene organizzato e nello stesso tempo corposamente palloso.
Veniamo a Vipera di Maurizio De Giovanni. Napoli 1932, una settimana a Pasqua. Arriva la primavera. Al Paradiso, “il casino più famoso della città, quello per i ricchi” viene uccisa Cenammo Maria Rosaria, ovvero Vipera, ragazza bellissima conosciuta da tutti. Proprietaria dell’esercizio Yvonne, a trovarla viva per ultimo Coppola Giuseppe di lei innamorato fin da ragazzo, e a trovarla morta Vincenzo Ventrone, commerciante di arredi sacri con tendenze sadomasochiste, uno dei tanti “affezionati” clienti. Morta soffocata con un cuscino sul quale ci sono dei capelli biondi (e pure sulla spazzola), il cadavere “scomposto in mezzo alle lenzuola sgualcite”, una delle gambe penzolante nel vuoto, le braccia aperte. Le parole “sentite” dal commissario Ricciardi (che ha, come sappiamo da precedenti letture, questo “dono”) Frustino, frustino. Il mio frustino. L’indagine porta alla luce una serie di storie particolari come quella d’amore di Coppola per Maria Rosaria, “presa” dal sindaco, il signorotto del paese di manzoniana memoria, quando era ancora una giovinetta, la gelosia di un’altra prostituta per Vipera, la precaria situazione economica di Yvonne. Un aiuto particolare arriva dal brigadiere Maione e la sua principale fonte di informazione, Bambinella, con il kimono di seta nera a fiori rossi e gli occhi “pesantemente tinti”. Accanto alla storia delittuosa si svolge il sofferto rapporto sentimentale del commissario con Enrica, la giovane dirimpettaia, e Livia, amica della figlia del Duce, due figure diverse di donna entrambe attratte da questo uomo affascinante e tenebroso. Non la faccio lunga: solito sguardo sulla città brulicante di “affamati, laceri e disgraziati” sempre allegri, qualche spunto sulla cretina violenza fascista, una visione più umana sul mondo e la vita delle prostitute, un tessuto narrativo più corale con l’intervento cospicuo di personaggi comprimari. Tutto bello, tutto perfetto se non ci fosse qualche piccola incrinatura dovuta al martellamento ossessivo di De Giovanni su certe parole e sentimenti, tanto da cadere in parte nel lezioso, e questa infelice, infelicissima storia d’amore del nostro sofferto, soffertissimo commissario Ricciardi che si trascina ormai per una discreta sequenza di libri. E se si tira troppo la corda… Che uggioso! [Fabio Lotti per Voci Amiche]
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