
Pur essendo passato quasi in sordina, Chéri, è un’opera ben fatta soprattutto considerando le varie problematiche dell’adattamento letterario: trasferire sullo schermo un racconto noto al grande pubblico, qual è l’opera di Colette, è sempre difficoltoso per regista e sceneggiatore, che si trovano a dover rimaneggiare ciò che gli spettatori già conoscono.
Seguendo letteralmente il libro di Colette, Frears ci riesce, ricreando perfettamente gli ambienti dell’epoca attraverso una scenografia ripresa nei minimi dettagli dal libro di Colette, così come riportati con saggezza sono i dialoghi e soprattutto lo spirito di una Parigi ormai schiava dei suoi eccessi. L’epoca di “decadenza” è ripresa nel suo duplice significato: da un lato quello aureo del costume e dall’altro quello nero del senso di fini verso cui tutto quel mondo è oramai proiettato.
Chiusesi le porte, nelle stanze cupe si riscopre una Léa attanagliata dal terrore di non essere più attraente e di perdere il potere che, essendo una prostituta d’alto livello, ha da sempre esercitato nelle classi più elevate. Allo stesso modo Chéri, che in questo mondo ovattato vi è nato e cresciuto, è sconvolto dall’idea di scontrarsi con il reale.
In questo senso entrambi diventano pedine di un gioco destinato ad una fine, poiché l’uno trova la volontà di esistere solo nell’altro. Quando Chéri, infatti, sarà strappato da Léa e dalla sicurezza della madre e dell’amante, finirà per perire, come un ennesimo Dorian Gray, della propria bellezza.