L’orologio ticchettava sommesso nello studio. La dominante marroncina dell’ambiente era dovuta alle statuine etniche che adornavano gli scaffali. “Questa roba è troppo stereotipata”, pensò il dottore, “la farò sparire quanto prima. Ma non oggi.” Dalla finestra chiusa provenivano canti di Natale in filodiffusione. In strada, la gente sembrava in preda a strani attacchi isterici, come se le festività fossero una sciagura a cui non erano preparati. Tra di loro c’era anche sua moglie, che dopo aver preso in largo anticipo i regali per amici e parenti, era rimasta in ritardo per quelli dei bambini.
E in casa c’era ancora da preparare tutto.
Ecco perché quando uno sconosciuto aveva chiamato blaterando di un’emergenza, il dottore non aveva esitato ad accettare. Qualsiasi cosa pur di evitare quelle incomprensibili ansie da prestazione festiva.
Nell’udire il trillo asettico della porta d’ingresso cercò di assumere la consueta aria professionale. Il pulsante fissato sulla scrivania fece scattare la serratura.
La prima cosa che vide del nuovo paziente furono le mani, grosse, callose.
– Buongiorno, dottore. Posso?
– Si accomodi, la stavo aspettando.
Era un uomo anziano, rugoso, con gli abiti e il viso decisamente sfatti. A prima vista poteva dirsi un barbone, ma la sua espressione, il portamento e anche la stazza robusta suggerivano abitudini piuttosto signorili. Di fronte a un cenno del dottore si abbandonò sulla poltrona evitando però di sprofondarci.
– Mi scusi se l’ho disturbata proprio oggi, mi rendo conto che si tratta di giornate particolari.
– Nessun problema. Mi dica tutto signor… Claus? Di dov’è? Austriaco?
– No, più su. Nord Europa.
– Bello.
Con grande naturalezza il dottore estrasse la penna dal taschino e cominciò a scarabocchiare su un taccuino privo d’intestazione.
– Bello sì, anche se in genere in questo periodo dell’anno mi sposto parecchio.
– Il lavoro ci porta spesso lontano da casa – Il dottore sorrise poi aggiunse – Come mai è venuto da me?
– È una questione delicata.
– Odio gli stereotipi da psicanalista, ma insomma… cominci dal principio.
L’uomo tirò un sospiro che gli fece gonfiare ancora di più la pancia. Si tolse il cappello grigio, di lana consunta, lasciando che il dottore notasse i capelli bianchissimi, lunghi sulla nuca nonostante la testa calva.
– E chi se lo ricorda più il principio? Faccio il mio lavoro da tanti di quegli anni. E senza mai lamentarmi eh, nossignore! Ho messo in piedi tutto da solo e non mi pento di nulla. Eppure, da un po’ di tempo, le cose sono cambiate.
– Subisce pressioni dai colleghi più giovani? Le fanno mobbing?
– No, no. I miei apprendisti mi sono devoti. Il problema è un altro.
Le labbra del vecchio si aprirono, ma non parlarono. Nemmeno il dottore aprì bocca, sapeva che il rospo stava per uscire senza bisogno di ulteriori incoraggiamenti.
– Vede, io… penso di non esistere.
Il dottore non riuscì a trattenere un’espressione sorpresa.
– Lo so, lo so cosa sta per dirmi: io sono qui, lei può ascoltarmi, vedermi, toccarmi eccetera. Ma dottore, io le chiedo: se tutti cominciassero a comportarsi come se lei non esistesse, quanto ci metterebbe prima di cominciare a crederci? Voglio dire, a credere negli altri e non più in se stesso?
– Accade spesso a chi ha un forte calo dell’autostima di mettere in discussione i pilastri della propria identità – disse il dottore scrivendo senza sosta – Forse però dubitare della propria effettiva esistenza è un po’ eccessivo.
– Ma la gente non fa che ripeterlo!
– Cosa?
– Che non esisto.
– Ma scusi, glielo dice in faccia?
– No, certo che no.
– E allora?
– Allora lo dicono, lo scrivono, ne parlano. Per tutti è una certezza: io non esisto.
– Forse è solo il suo ego che ha bisogno di essere “nutrito”. Mi dica, c’è qualcosa o qualcuno che la fa sentire felice?
– I bambini.
– Lei ha nipoti?
– Oh no, non ho nemmeno figli. E lei, dottore?
– Due – rispose il dottore spostando leggermente verso il vecchio la cornicetta di legno che teneva sulla scrivania.
Era una strategia che usava spesso, i pazienti si sentono più a loro agio se il terapeuta mostra il suo lato umano. L’uomo prese la foto con le mani e se l’avvicinò agli occhi.
– Oh, Beatrice e Francesco. – disse il vecchio.
Il dottore s’irrigidì.
– Come fa a sapere i nomi?
– Io conosco i nomi di tutti i bambini del mondo – rispose il vecchio con un sorriso umile.
Il dottore lo guardò con sospetto. Per qualche secondo meditò di chiamare la polizia, poi tornò col pensiero sul cognome dell’uomo. Claus. Sì diede uno schiaffo sulla fronte, sempre col pensiero. Tutto era chiaro.
– Ma lei… lei sarebbe… cioè, crede di essere…
– Se non ci crede nemmeno lei, come potrei crederci io?
– No, volevo dire… non…
– “Non” cosa?
Con tutta probabilità quello era l’ennesimo malato di mente che incontrava, eppure c’era qualcosa di diverso in lui. Forse il fatto che sembrava assolutamente lucido. E non era la sua proprietà di linguaggio a dirlo, ma gli occhi. “Forse – pensò il dottore – è meglio assecondarlo per un po’, giusto per farlo parlare e vedere dove porta il suo ragionamento.” Il vecchio non se lo fece dire nemmeno una volta.
– Non ho la barba, è questo che vuol dire? Eh! L’ho tagliata stamattina, in preda all’ennesima crisi. Ho pensato che vedere il mio volto dopo tutti questi anni, guardarmi in un modo in cui non mi ero mai visto, mi avrebbe aiutato a trovare me stesso, a convincermi che esisto, che sono una realtà a prescindere da quello che dicono tutti. Ma ha solo peggiorato le cose. Stentavo a riconoscermi, senza la mia lunga barba bianca “Non sono più io! – mi sono detto – Hanno ragione loro, cribbio! Io non esisto!”
Il dottore non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Stava per dire qualcosa, ma il vecchio ormai era in pieno sfogo.
– Ieri, quando ho realizzato che eravamo già arrivati al 23, per la prima volta nella mia vita ho avuto un attacco di panico in piena regola. Respirazione accelerata, sudorazione, vista annebbiata. Stavo per perdere i sensi, gli elfi si sono spaventati a morte. Ma non sono svenuto. Sono scappato. Ho mollato tutto lì e me ne sono andato. Volevo stare tra la gente nella speranza di capirci qualcosa, speravo di incontrare qualcuno che mi aiutasse a… non lo so. Non so neanch’io cosa volevo fare, e alla fine ho fatto poco e niente. In un bar ho avuto un altro attacco e una signorina gentile mi ha dato il suo numero. Tentar non nuoce, mi sono detto.
Il dottore cercò di restare professionale.
– La ringrazio della fiducia, ma per un problema del genere è necessaria una lunga terapia. È impensabile risolverlo in una sola seduta.
– Capisco. Vabbè, tanto il tempo non mi manca.
– Ma è la vigilia di Natale! – Il dottore non sapeva da dove gli fosse uscita quella frase.
– Lo so che giorno è! Che differenza vuole che faccia? Tanto non esisto!
– Lei esiste per i bambini, tutti quei bambini che credono in lei!
– Oh chi ci crede più ormai! Hanno internet.
– Non è vero, i miei figli la aspettano!
– E allora perché lei fa come gli altri? Perché sottrae ai bambini le lettere indirizzate a ME e compra al MIO posto i regali che IO dovrei portare!
Il dottore scrisse qualcosa sul taccuino, ma la verità è che era molto confuso. Stava parlando a quell’uomo come se credesse ciecamente a quel che diceva.
– Certo, ha ragione. Io sono un medico, un uomo razionale e un giorno dirò ai miei figli che lei non esiste. Ma proviamo a sfruttare la cosa a livello terapeutico. Lei mi ha chiesto di curarla e per curarla io devo CREDERLE, giusto? Dunque avanti, mi dimostri che lei è davvero chi dice di essere!
Il vecchio assunse un’espressione infastidita.
– Non posso convincerla se non ne sono più sicuro nemmeno io!
– Non è vero, lei ci crede ancora. Altrimenti non sarebbe venuto qui, non oggi! È venuto alla vigilia di Natale perché ha la speranza di riacquistare fiducia in se stesso e portare a termine il suo lavoro!
L’uomo sembrò turbato, la provocazione aveva colto nel segno. Si passò la mano all’altezza del petto come volesse arricciarsi la barba, ma non trovandola, tornò a stringere il bracciolo della poltrona.
– Sì non nego che la speranza c’è. Sarebbe bello ritrovare quella forza. Ma ora come ora non credo sarei in grado di tornare sulla slitta. L’anno scorso sa quant’è durato il mio giro del mondo? Mezz’ora! I regali li avevano già presi tutti i genitori, ho riportato indietro un sacco di roba! È stato allora che ho cominciato a chiedermi chi sono. Se davvero non esisto.
– Si ricorda della sua infanzia?
– Oh, l’infanzia. Non potrei ricordarla nemmeno se volessi. Le mie origini sono sempre state ambigue, dottore. In molti hanno detto la loro. La faccenda di San Nicola, quella mi faceva piacere, anche se non mi sono mai sentito un santo. Poi c’è la storia della Coca-Cola, che gran rottura. Ma insomma dico io, pure se avessi copiato il vestito da quel manifesto, che male ci sarebbe? Aveva un bel taglio!
– Purtroppo capita spesso ai… personaggi pubblici, come lei, di avere problemi nella definizione della propria identità – disse il dottore senza smettere di scrivere.
– Esatto! Il problema è proprio lì. Quando ti conoscono tutti, si sentono anche in diritto di dire chi sei. Ma cosa ne sapete voi scettici di chi sono o non sono?
Il dottore si lasciò sfuggire un sospiro.
– Però non può obbligare la gente a credere in lei. E d’altro canto non può permettere siano gli altri a costruire la sua identità.
– No, ha ragione. Ma si metta nei miei panni.
– Si metta lei nei miei! Si rende conto che cose come la slitta e le renne volanti sono, come dire, un tantino irrazionali?
– Ma ce ne sono tante di cose irrazionali in cui credete! L’economia per esempio. Oppure Dio. Perché in Dio credete e in me no? Io almeno una prova tangibile della mia esistenza ve la do: i regali!
Nella stanza calò il silenzio, scandito dal ticchettare regolare dell’orologio. Il dottore terminò di scrivere qualcosa poi guardò il vecchio dritto negli occhi. L’uomo aveva un leggero fiatone.
– La questione religiosa la lascerei perdere – disse il dottore sbirciando l’orologio sulla parete.
– Già.
Il vecchio provò di nuovo a toccarsi la barba, ma il vuoto che trovò stavolta fu accolto da un gesto di stizza. Si alzò in piedi di scatto.
– Adesso lo sa cosa faccio? Mi lancio da questa finestra, faccio un fischio alle renne, e atterro a volo sulla slitta, davanti a tutti. Mi faccio una trasvolata della piazza. Voglio proprio vedere la faccia che faranno!
Si diresse con sicurezza verso la finestra, la sua mano enorme la aprì in mezzo secondo.
– Fermo! – gridò il dottore – Non lo faccia, la prego.
– Non mi crede eh? Pensa che io sia come uno di quei pazzi che si credono Napoleone. Che mi sfracellerei di sotto.
– No, niente di tutto questo – disse il dottore senza sapere fino a che punto stava mentendo – Credo solo che sarebbe inutile. Se lei volasse per strada in questo momento, penserebbero tutti a una trovata pubblicitaria. Le farebbero dei video col telefono. Ma per lei non cambierebbe nulla, anzi forse sarebbe peggio.
Il vecchio teneva ancora stretta la maniglia della finestra, ma la sua mano tremava. Fece un ampio respiro, poi la richiuse.
– Ha ragione.
Tornò alla poltrona, con l’espressione più triste che quel viso bonario potesse assumere.
– Cosa dovrei fare allora, secondo lei?
– Esca di qui, trovi un posto tranquillo dove andare. Torni a casa se vuole. Si faccia una bella dormita. Poi, a mezzanotte in punto esca e faccia quello che deve fare.
– Ma le ho detto che i bambini…
– Non lo faccia per i bambini, o almeno non solo per loro. Lo faccia soprattutto per lei. Se lei è davvero chi dice di essere, vuol dire che l’unica cosa che la rende felice è fare quello che fa. E allora lo faccia. Che importa se ci credono in pochi? Che importa se nessuno la vede? Che importa se il giro dura mezz’ora o mezza nottata? Lei lo deve a se stesso, perché non può vivere senza. Perché se davvero lei quest’anno non uscisse di casa, allora sì che non sarebbe più nessuno. Se invece continuerà ad assecondare quella che è la sua vera natura, la sua missione, lo scopo della sua vita, prima o poi anche i più scettici dovranno ricredersi.
Il dottore cominciò a gesticolare come mai gli era capitato, le mani tagliavano l’aria con un’energia che sorprese persino il vecchio.
– Magari non succederà quest’anno, né il prossimo. Ma un lavoro fatto con amore non può passare inosservato a lungo. La sua stella tornerà a splendere, vedrà!
Gli occhi del vecchio brillavano. Il dottore percepì un abbraccio nell’aria ma volle evitarlo. Era ancora sconvolto da quanto aveva detto. Per un attimo s’immaginò a correre per tutta la città elargendo sorrisi e gridando “Buon Natale!” ai passanti. Doveva ricomporsi.
Il vecchio tese verso il medico una delle grosse mani.
– Ha ragione dottore, ha assolutamente ragione.
– Si fidi di me. Vada a casa, al Polo Nord o dove diavolo sia.
– Lapponia.
– Sì, esatto.
– Grazie, dottore.
– Si figuri. Faccio anch’io il mio lavoro, come vede.
– Quanto le devo?
– Oh, niente, offro io per stavolta.
Premette il pulsante della porta che si aprì con uno scatto. Accompagnò il vecchio all’uscita, come se volesse mostrargli la strada verso una giornata migliore.
– Le posso chiedere solo una cosa? – chiese il vecchio voltandosi prima di andare.
– Mi dica.
– Quando ha smesso di crederci?
– A cosa? A lei? – il dottore sorrise – me lo ricordo benissimo. Avevo 10 anni. Volevo vederla arrivare a tutti i costi. Finsi di addormentarmi poi mi nascosi nel soggiorno, dove avevamo l’albero. Vidi mio padre assonnato e anche un po’ scocciato che metteva i pacchi sotto l’albero. Inciampò tre volte, era veramente un disastro. Trattenni il fiato finché non se ne fu andato, poi scoppiai a piangere. Rimasi lì a piangere per tutta la notte.
– E lei per una fesseria del genere non ha più creduto in me? – disse il vecchio sorridendo.
– Ehm… sì, temo di sì.
– E in tutto questo tempo non le è mai venuto in mente che poteva sbagliarsi?
– No, mai. Il sogno era finito.
Il vecchio si rinfilò in testa il cappello di lana, con lo sguardo fisso sul dottore.
– Lei sarà pure uno psicanalista. Ma di sogni non capisce proprio un cazzo – disse prima di sparire nell’androne.
Il dottore rimase imbambolato davanti alla porta, una parte di lui sperava di sentire la classica risata marchio di fabbrica “Oh! Oh! Oh!”. Ma il vecchio se ne andò senza fare rumore.
Rimasto solo nello studio, il dottore guardò fuori dalla finestra. Lo cercò invano tra la folla, poi guardò istintivamente il cielo, era nuvoloso.
Si sedette sulla poltrona dietro la scrivania, prese il telefonino e chiamò sua moglie. Magari non era ancora passata al negozio di giocattoli. Magari faceva in tempo a fermarla.
[Il racconto si intitola Seduta straordinaria ed è stato scritto da Armando Vertorano, autore di Dindalé. Conti di poco conto]
J.R.R. Tolkien, Lettere di Babbo Natale
PS: Ogni anno, la vigilia di Natale, il NORAD (che sta per North American Aerospace Defense), il dipartimento USA che gestisce il sistema di rilevazione radar contro eventuali attacchi aerei, segue il percorso della slitta di Babbo Natale.
Per rilevare gli spostamenti vengono utilizzati radar, satelliti, telecamere e persino caccia aerei. Il segnale che le apparecchiature seguono è il naso rosso della renna Rudolph.
Il NORAD segue la slitta volante dal 1955, quando una bambina telefonò al comando centrale chiedendo quando Babbo Natale sarebbe arrivato a casa sua. Il numero del comando era finito per sbaglio sul volantino di un negozio di giocattoli. L’ufficiale di turno, il colonnello Shoup, controllò con i radar la posizione della slitta e tranquillizzò la bambina. Fece lo stesso con i bambini che chiamarono subito dopo.
Oggi non c’è bisogno di telefonare: il percorso della slitta si può seguire in tempo reale attraverso il sito web o scaricando un’app. Cliccate sull’immagine per sapere a che punto sono i vostri regali:
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