Ho visto un corriere espresso uscire da un magazzino la mattina presto con in mano un foglio stampato che forse era l’ordine di consegna, salire sul furgone e bere un sorso d’acqua da un bottiglia piccola di minerale, calcare sulla testa il berretto con il logo della ditta di spedizioni per cui lavora, abbassare il finestrino e gettare un’occhiata indietro sulla strada, partire e dileguarsi, e non capisco perché in un istante tutto il peso della sua vita mi è rimasto appiccicato addosso, compresi i momenti di bellezza intensa e luccicante, se ne ha avuti, ma certo che ne ha avuti.
Sono tornato a lavorare nel Grande Nulla, alle sette del mattino seduto in macchina nel parcheggio della chiesa a venti metri dall’ufficio ho scambiato il rumore di una sega circolare per il canto di una balena, poi ho lavorato per tutto il giorno in una stanza con un tipo che ha dormito per tutto il tempo, sonnecchiava davanti al computer spento, di tanto in tanto si risvegliava, accendeva un sigaro, faceva due tiri e si riassopiva, tutto il giorno, ho pensato che lavoro con gente morta che non si cura di essere morta.
Nell’epilogo de Le città invisibili, Calvino ha scritto: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abbiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce fatale a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”.