Chi ha paura del nazionalismo scozzese?

Creato il 15 maggio 2014 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 15 maggio 2014 in Occidenti, Slider with 1 Comment
di Matteo Zola

da LONDRA - Il prossimo 18 settembre i cittadini scozzesi saranno chiamati a votare un referendum storico per decidere sull’indipendenza del loro paese. La questione però è tutt’altro che semplice: molte sono le componenti storiche, sociali ed economiche da tenere in considerazione per capire le ragioni di questo referendum e le sue possibili conseguenze locali e internazionali. Non a caso il referendum scozzese è guardato con attenzione, e preoccupazione, da molti paesi europei che temono per la loro integrità nazionale e da buona parte di quei movimenti indipendentisti e autonomisti che negli ultimi trent’anni sono sorti un po’ ovunque in Europa. L’indipendentismo scozzese sfugge però alle facili definizioni. Non l’etnonazionalismo, non la reinvenzione del passato, non l’acredine verso i vicino inglesi: il motto dello Scottish National Party (SNP) e del suo leader, Alex Salmond, First minister e guida del governo locale, è “a partnership of equals”. E malgrado a Westminster tutti i partiti si spendano per evitare la separazione, anche con colpi bassi e qualche ricatto politico, il consenso verso l’indipendenza cresce settimana dopo settimana.

La Scozia e il mondo globalizzato

La Scozia è una nazione antica, ma il nazionalismo scozzese è relativamente recente. La causa nazionalista in Scozia non ha mai scaldato gli animi: per tutto l’Ottocento fu portata avanti da un ristretto gruppo di intellettuali e si dovette attendere gli anni Venti del secolo scorso, con la nascita del partito nazionalista scozzese, per cominciare a parlare pubblicamente di indipendenza. L’atto di Unione con l’Inghilterra, datato 1707, si rese necessario dopo il collasso finanziario dello stato scozzese, uscito malconcio dall’impresa detta di Darién, che prevedeva la colonizzazione dell’istmo di Panama – e del golfo di Darién – allo scopo di rilanciare il commercio internazionale di un paese in dissesto economico. L’impresa fallì miseramente portando allo scoperto la debolezza di una Scozia incapace di fronteggiare le sfide di un mondo che andava globalizzandosi, fatto di barriere tariffarie e guerre mercantili, commerci oceanici e nascenti compagnie finanziarie.  Per evitare la bancarotta, il parlamento scozzese  votò per l’unione con l’Inghilterra che, dal canto suo, si accollò il debito del governo scozzese. Molti guardano a quell’evento paragonandolo al presente: potrà la piccola Scozia far fronte da sola alle sfide del mondo globalizzato?

L’indipendenza per un Ipad

Potrà, dicono i nazionalisti, grazie agli idrocarburi. Al largo delle coste scozzesi si trovano importanti giacimenti di gas e petrolio che da soli valgono il 20% del Pil britannico. La popolazione residente in Scozia è invece appena il 10% del totale, sei milioni circa. Il calcolo è semplice – dicono i nazionalisti – una Scozia indipendente sarà due volte più ricca che restando con Londra. Un argomento che suona bene a quel milione e trecentomila persone che in Scozia si trovano a vivere sotto la soglia di povertà relativa.

Quella dell’indipendenza scozzese è una questione di soldi, già due anni fa l’Economist scriveva “It’ll cost you”, “ti costerà” Scozia separarti, e citava un sondaggio per il quale il 40% degli scozzesi sarebbe stato contrario alla separazione se questa fosse costata più di 500 sterline l’anno: “L’indipendenza scozzese vale il prezzo di un Ipad”, ironizzava il settimanale. Ma da allora molta acqua è passata sotto i ponti e i sondaggi più recenti mostrano che la forbice tra favorevoli e contrari si riduce costantemente. Se ancora negli ultimi mesi del 2013 i contrari superavano i favorevoli di 15 punti percentuali, questa distanza si è andata dimezzando nelle ultime settimane. E questo malgrado le molte questioni aperte, economiche s’intende.

Due visioni della società

A contrapporsi sono due visioni della società. Per farsene un’idea è sufficiente guardare i risultati elettorali delle ultime elezioni nazionali e locali. In Scozia il partito conservatore – attualmente al governo – prende pochissimi voti, nelle ultime quattro tornate non ha mai ottenuto più di un deputato. Le simpatie della forte e strutturata working class scozzese vanno tradizionalmente ai laburisti e, in misura minore, ai liberali. Questo almeno fino all’arrivo del partito nazionalista, capace di coniugare istanze social-democratiche agli interessi della società scozzese. Così, mentre a Londra tagliano le borse di studio, e le università costano circa diecimila sterline all’anno di tasse, a Edimburgo sono gratuite. La sanità, che Westminster ha deciso in parte di privatizzare, Holyrood la finanzia con le tasse locali.

Ma il parlamento scozzese nulla può contro i tagli al settore pubblico decisi dal governo Cameron in nome dell’austerity. Da un lato, insomma, troviamo una visione ‘scozzese’ della società basata sulla solidarietà, sui beni pubblici, sui diritti di cittadinanza, cui si contrappone l’idea ‘inglese’ di  individualismo, privatizzazioni, liberalizzazioni portata avanti dall’alleanza tra conservatori e liberali. E il partito laburista? E’ anche lui contrario all’indipendenza, anche perché in Scozia ha quello zoccolo duro senza il quale mai potrebbe aspirare a vincere le elezioni, ma i sondaggi mostrano come gli elettori laburisti siano inclini, questa volta, a disobbedire al partito.

I punti deboli dei nazionalisti

Le promesse di Salmond e dei nazionalisti si sono fin qui scontrate con la dura realtà. Il “libro bianco” presentato quale programma dettagliato del progetto indipendentista è stato più volte messo in discussione. Il vero vulnus del “libro bianco” è la politica monetaria, si legge: “La Scozia indipendente continuerà a mantenere la sterlina come valuta e la Banca d’Inghilterra continuerà a essere il garante di ultima istanza” e “negozierà con il Regno Unito quanta parte del debito pubblico farsi carico”. Il 13 febbraio scorso il Cancelliere dello scacchiere, George Osborne, ha rigettato l’ipotesi di un’unione monetaria tra Londra ed Edimburgo, negando che la Banca d’Inghilterra possa essere anche banca centrale scozzese. Le difficoltà di avere una stessa valuta senza una politica fiscale comune, e senza essere uno stato federale, hanno convinto Londra a tenersi la sterlina tutta per sé.

Per Salmond è un problema: mantenere la sterlina come valuta è uno dei punti centrali del suo programma. Adottare l’euro o una moneta propria è considerato invece più rischioso e problematico, poiché spaventerebbe investitori e risparmiatori. Ma è per bocca del presidente della Commissione europea, Jose Manuel Barroso, che è arrivata la seconda doccia fredda: la Scozia non potrà essere membro dell’Unione Europea “de facto, dovrà “fare richiesta [d'adesione, ndr.] e, cosa molto importante, la domanda di adesione e l’adesione all’Unione Europea deve essere approvata da tutti gli altri Paesi membri – ha dichiarato Barroso alla BBC il 16 febbraio scorso – Sarà estremamente difficile ottenere l’approvazione di tutti i Paesi membri per avere un nuovo Stato che nasce da un altro”.

Le dichiarazioni di Osborne e Barroso sono state vissute dall’opinione pubblica scozzese come un’intimidazione, ma hanno anche spaventato. Cal Flyn, articolista del settimanale britannico New Statement, in The Springtime for Gaelic, scrive: “Gli irlandesi hanno scelto la via dell’indipendenza con ogni forza, e hanno accettato – pur di averla – di vivere in un paese più povero e in condizioni economiche svantaggiate rispetto al Regno Unito. Gli scozzesi non sembrano voler sacrificare nulla alla loro indipendenza, che accetteranno solo se porterà loro dei vantaggi”. E vantaggi, senza sterlina e senza euro, non se ne vedono.

Ma è l’Economist a riaprire inaspettatamente la porta agli scozzesi, nell’articolo Homage to Caledonia pubblicato il 22 febbraio scorso, si sottolinea come le dichiarazioni di Barroso sembrassero dettate da Madrid, anch’essa alle prese con l’indipendentismo catalano, e che una Scozia indipendente avrebbe le carte in regola per un accesso preferenziale all’Unione Europea: “è sbagliato insinuare che nuovi stati indipendenti non potranno mai far parte della UE. Il Montenegro e la Macedonia saranno ammessi più rapidamente della Scozia e della Catalogna che già applicano le normative europee?”, s’interroga il periodico. Ciò nonostante il settimanale non afferma che la procedura sia semplice ed anzi ritiene “disonesto pretendere che l’accesso sia facile e rapido, anche nella migliore delle ipotesi”, e valuta in “quattro o cinque anni il processo di adesione”. Alla luce di questi problemi può non essere azzardato affermare che Salmond e i suoi abbiano mancato di lungimiranza e capacità politica non negoziando per tempo accordi con Londra e Bruxelles.

Le dichiarazioni di Osborne sull’impossibilità di condividere la sterlina sembrano però far parte di una strategia atta a sventare l’indipendenza scozzese se è vero quanto dichiarato al Guardian da un ministro, rimasto anonimo ma che si vocifera essere il segretario alla Difesa, Philip Ammond, che “alla fine verrà consentita l’unione valutaria per garantire stabilità non solo alla Scozia ma anche al Regno Unito”. Immediate le smentite del governo ma in molti, in Scozia, hanno cominciato a pensare che la partita sia truccata. Forse anche all’atteggiamento di Londra si deve l’aumento nei sondaggi dei favorevoli all’indipendenza.

“Nazionale” non “nazionalista”

L’elemento più interessante del nazionalismo scozzese è che manca del tutto di quel diffuso etno-centrismo tipico di molti “leghismi” europei. Al referendum potranno votare tutti i residenti in Scozia, dai sedici anni di età, di qualsiasi nazionalità essi siano. Tra i temi della campagna referendaria c’è anche l’immigrazione, cui lo SNP si dice favorevole poiché “necessaria per far crescere il paese” e aspre critiche sono state mosse da Salmond allo slogan “Go home” promosso dal governo contro l’immigrazione clandestina. Come scrive Andrew Marr sul New Statement: “Non è il partito nazionalista scozzese, ma il partito nazionale scozzese. Essere a favore dell’indipendenza scozzese non significa essere nazionalisti. Uno dei risultati ottenuti da Salmond è stato allontanare lo SNP dal cupo nazionalismo del Novecento, di evitare l’anglofobia senza perdere occasione di esaltare gli inglesi come buoni amici e partner. Lo SNP di Salmond – prosegue Marr – ha fatto proseliti tra le comunità pakistane, indiane e polacche; è difficile immaginare qualcosa di più lontano dalla retorica della terra e del sangue propria di molti nazionalismi del secolo scorso e di oggi”.

Il populismo inglese

A guardare il Regno Unito, quello scozzese non sembra dunque il nazionalismo più pericoloso. A sud del confine si assiste infatti all’emergere di istanze populiste e xenofobe rappresentate, in buona misura, dal Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) guidato da Nigel Farage. Fondato da alcuni fuoriusciti conservatori nel 1993, i suoi principali obiettivi sono l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e una stretta all’immigrazione colpevole di “portare via il lavoro” agli inglesi. L’UKIP ha fin qui ottenuto pochissimi voti in Scozia ma in Inghilterra ha raggiunto, alle elezioni locali del 2013, il 23% dei consensi (contro il 25% dei conservatori) mostrando come la pancia dell’elettorato inglese sia attratta dal populismo. I sondaggi per le prossime europee lo danno in testa al 31% e nella sola Inghilterra supera il 40%. Per recuperare voti a destra, il partito conservatore ha cominciato a usare le stesse retoriche dell’UKIP e le recenti dichiarazioni del primo ministro David Cameron in merito a romeni e bulgari, apostrofati come “accattoni” desiderosi solo di abusare “dell’ospitalità britannica”, sembrano essere spie di un’intolleranza diffusa che sembra essere molto più pericolosa del nazionalismo scozzese.

Nel referendum del 18 settembre gli scozzesi non decideranno solo del loro futuro. In caso di vittoria dei “sì”, la rimanente parte della società britannica si troverebbe molto più spostata a destra e la vittoria dell’UKIP alle elezioni del 2015 sarebbe tutt’altro che impossibile. L’indipendenza scozzese potrebbe quindi spingere l’Inghilterra, il Galles e il Nord Irlanda verso il populismo, mettendo in discussione quel pluralismo e quella tolleranza che hanno fin qui contraddistinto la società britannica.

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