La critica ad Halloween e la negazione della morte
Come ogni anno, anche in questi giorni che hanno preceduto le festività di Ognissanti non ci sono stati risparmiati (su siti e social network) link e articoli riguardanti la controversa ricorrenza di Halloween.
In particolare mi ha colpito un'immagine circolante su Facebook - che reputo emblematica di una certa mentalità (bigotta e di stampo buffamente inquisitoriale) ancora molto diffusa nel nostro Paese.
Premetto che non è mia intenzione difendere Halloween in quanto festa commerciale (consumistica al pari del Natale cristiano, messo in bella mostra nei supermercati già a partire da inizio novembre), col suo contorno di paccattoglia di cattivo gusto: lanterne di plastica, ragnatele finte e maschere orribili.
Ciò che mi preme, piuttosto, è rimarcare l'origine europea (e dunque non strettamente anglosassone/americana) della "festività dei morti", evidenziando come la sua critica sia di matrice cattolica - tutta tesa a negare l'importanza dei cicli di Vita e Morte all'interno della nostra esistenza.
Si legge sul volantino diffuso dalla Gioventù Ardente Mariana (scritto in un italiano decisamente trascurato!): " Una festa di origine anglosassone che comincia a prendere sempre più piede nel nostro Paese [...]. Il fenomeno Halloween [...] è un insieme di rituali e una pratica di stregoneria sia per chi lo faccia consapevolmente o no ".
In realtà, i morti erano onorati fin dai primi uomini sapiens sapiens (che adornavano le tombe con oggetti di uso comune, utili per il viaggio nell'oltretomba) e il loro culto rimane intatto attraverso i secoli: non solo (ovviamente) presso gli Egizi e i Celti (il cui capodanno, chiamato "Samhain", è il diretto precursore della nostra festa di Halloween), ma anche (inaspettatamente, per alcuni ferventi cattolici!) in area mediterranea: si pensi al culto dei Lari e dei Penati presso i romani e ai culti (meno conosciuti) riservati a Dioniso, Demetra e Persefone (divinità ctonie, sempre collocate in limine tra vita e morte) in determinati periodi dell'anno (le Tesmoforie e le Antesterie in Grecia; i Saturnalia e il rituale dell'apertura del mundus nell'antica Roma): in tutti i casi si tratta di feste atte a celebrare le divinità del ciclo vegetazionale, il ritorno dei morti sulla terra e l'importanza di questo ritorno per una successiva "resurrezione" collettiva. Poco c'entrano, dunque, le "pratiche di stregoneria" e i "rituali e sacrifici satanici" (cit.) paventati dalla Gioventù Ardente Mariana!
Poiché si tratta di antichi culti pre-cristiani, è ovvio che la " vera festa dei Santi" (ancora dal volantino) a cui si pretenderebbe di educare bambini e ragazzi altro non è se non una successiva e più tarda rielaborazione in chiave cristiana di rituali già esistenti in tutti i Paesi europei: una sorta di fil rouge che unisce territori lontani fra loro, richiamando la vita alla morte e viceversa.
Questo filo rosso si è dipanato fino ai giorni nostri ed è possibile rintracciarlo anche nelle tradizioni italiane: già durante le Pianèpsie, infatti, venivano consumati legumi - e quest'usanza è rimasta intatta presso molte regioni (si pensi alla tipica minestra di ceci piemontese). Addirittura, si è soliti lasciare apparecchiata la tavola, affinché i morti possano tornare a cibarsi per una notte presso le loro abitazioni: in Veneto si lasciava il "piato dei morti" e si cucinavano cibi particolari, come i trandoti e gli ossi di morto (Dino Coltro, citato da Alfredo Cattabiani nel suo Lunario). Altri alimenti "tipici" della festa dei morti erano quelli a base di farina e frutta secca, considerati cibi capaci di trattenere l'energia del sole e, dunque, di restituire la vita (anche se solo per una notte: vedi, ancora, il Cattabiani).
Lo stesso utilizzo di lanterne (a volte ricavate da zucche vuote: si tratta del Jack O'Lantern della tradizione anglosassone) e lumini non è un'usanza solo tipicamente inglese e americana: accendere luci nella notte ha lo scopo di indicare la giusta via ai morti ed è una tradizione diffusa nella zona garganica e nel veronese, dove le zucche scavate e illuminate dall'interno erano chiamate "Lumiere".
Ad Orsara (in Puglia), addirittura, tutte le abitazioni si illuminano delle cocce priatorje, allo scopo di indicare la giusta via ai morti. [1]
Si potrebbe continuare a lungo, elencando simili manifestazioni folcloristiche...
L'assunto di base è che i morti sono stati sempre celebrati per la loro funzione di "garanti dell'equilibrio trans-mondano".
In questo, ha ragione il volantino della Gioventù Mariana: " Certe filastrocche che i bambini devono imparare sono evocazioni dello spirito di morte ".
Tale evocazione, tuttavia, lungi dall'essere chissà quale satanica stregoneria, è una tappa essenziale (oggi troppo spesso ignorata e bistrattata) dello sviluppo psicologico dell'individuo: infatti, solo accettando la ciclicità della vita e comprendendo a fondo che tutto, prima o poi, deve morire per rinascere, potremo sperare di sviluppare un equilibrio interiore tale da permetterci di accettare senza troppi scossoni i fatti della vita.
Tenere la morte lontana da noi, concepirla come un abominio (da fuggire e scongiurare) ha prodotto molte aberrazioni nella società contemporanea: dall'inseguimento dell'eterna giovinezza a colpi di bisturi e di gravidanze in tardissima età alla vergogna con cui viene vissuta la malattia - tanto per fare qualche esempio.
Ad un livello più profondo, questo atteggiamento influenza anche la qualità dei rapporti interpersonali: convinti di vivere in un eterno presente da fiaba (perché questo è il compito che ci viene affidato fin da piccoli: dobbiamo raggiungere la perfezione e preservarla dalla corruzione della putredine...), accettiamo a fatica che perfino le relazioni umane vadano incontro a un naturale processo ciclico di indebolimento, morte e rinascita.
Clarissa Pinkola Estés, nel suo Donne che corrono coi lupi, spiega in che modo ricercare la perfezione e l'eterna felicità in un rapporto di coppia sia deleterio:
"Qualcosa nella relazione comincia a decrescere e scivola nell'entropia. Spesso il doloroso piacere dell'eccitamento sessuale si indebolisce, oppure si vedono i lati fragili e lesi dell'altro, o la sua inadeguatezza come "trofeo", ed ecco allora che la vecchia ragazza calva e dai denti ingialliti [la Donna-Scheletro, simbolo di ciò che "deve morire" per poi rinascere a nuova vita] affiora in superficie.
Pare così raccapricciante, ma è la prima volta che si offre una vera opportunità di mostrare coraggio e conoscere l'amore. Amare significa stare con. Significa emergere da un mondo di fantasia in un mondo in cui è possibile un amore sostenibile faccia a faccia, ossa contro ossa [...] [2]".
Non accettare il cambiamento (la fase della "morte") all'interno di una relazione (amorosa, ma anche affettiva, amicale...), cercando di collezionare solo momenti di felicità e di "vita" perfetta è illusorio e pericoloso: ci indurrà infatti a fuggire a gambe levate ad ogni minimo segno di corruzione, spezzando la relazione e, insieme ad essa, il ciclo rigenerativo che la compone.
Crescere come individui, dunque, significa accettare la "Morte nella Vita" - comprendere che non possiamo e non dobbiamo restare prigionieri di un eterno presente né ostaggi di un'ipotetica e immaginifica ricompensa futura.
Questo percorso di crescita interiore non avverrà certo grazie alla strumentalizzazione in chiave consumistica della festa di Halloween o di Samhain; ma non accadrà neppure in virtù della demonizzazione della morte attraverso allarmate (e poco informate) prese di posizione contro una parte antichissima del nostro folclore.
Note
[1]P. Portone, La strega e il crocifisso, Gruppo Editoriale Castel Negrino, Aicurzio 2008, p.147-148.
[2] C. Pinkola Estés, Women Who Run with the Wolves, 1992, trad. it., Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Milano 1993, p. 134.