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Chi invadiamo dopo? A proposito di Oscar…

Creato il 29 febbraio 2016 da Albertocapece

MooreNonostante gli oscar i film più significativi saranno quelli che non vedremo né doppiati, né sottotitolati: la diuturna opera per renderci disponibili tutti i possibili sottoprodotti dell’ideologia americana non si riesce ad applicare a Where to invade next (Chi invadiamo dopo) l’ultimo film documentario di Michael Moore. Eppure non si tratta come in altri casi di una forte denuncia sui mali della società Usa, ma sostanzialmente di un viaggio in Europa nel quale si mostra la vita di una fabbrica come la Ducati, di una mensa scolastica in Francia, di un carcere Norvegese o Portoghese, le dinamiche di una fabbrica tedesca dove si lavora 36 ore la settimana con un salario da 40 ore, una visita ginecologica gratuita in Tunisia, una scuola Finlandese dove non si danno compiti a casa e via dicendo. Insomma una sorta di diario di viaggio in Europa, spesso se non sempre edulcorato che tuttavia ha la forza di una bomba e sul quale è caduto un silenzio sospetto, complici pure i problemi di salute del regista.

Meno il pubblico lo vede meglio è per il semplice fatto che qui non si attacca la General Motors, né i venditori di armi, né il presidente Bush o il capitalismo: ma va dritto al cuore della vera ideologia statunitense, ovvero il sentimento di eccezionalità che per l’uomo della strada e tra questi comprendo anche persone relativamente acculturate, si traduce rozzamente e concretamente nell’idea che le condizioni di vita siano sempre e comunque migliori negli Usa che da qualunque altra parte. Ricordate lo spavento dei parenti di Amanda Knox per la prospettiva che la figlia venisse detenuta in un carcere italiano, come se quelli texani fossero un eden e non fossero invece assai più pericolosi? Be è quella sindrome lì che chi ha frequentato cittadini del nuovo mondo conosce perfettamente nelle mille sfumature che può prendere, dal pensare che le stagioni siano un dono di Dio all’America, alla sorpresa di una vecchia amica d’oltreoceano che scopre come dopo i 120 un’utilitaria europea possa avere più tenuta e più motore di un bandone a stelle strisce e persino all’efficienza della sanità, cosa che ci apparirà stupefacente abituati come siano a realtà che esistono solo nel mondo degli straricchi. Ma insomma si tratta di mille piccole cose che alla fine costituiscono una solida fede.

E’ proprio questa sorta di mitologia autistica succhiata dai capezzoli dei media, delle famiglie, della scuola che rende in qualche modo presentabile e politicamente vincente l’imperialismo nelle sue varie forme di esportazione di democrazia e di civiltà, ma più ancora sviluppa il senso di accerchiamento di fronte all’esistenza di “stili di vita” che per il solo esistere minaccerebbero il proprio. Michael Moore senza darlo a vedere decostruisce il mito dall’esterno e mostra che al contrario  molte situazioni e idee sono migliori altrove che non negli States mettendo nelle mani dello spettatore medio un filo che può portare lontano, magari anche a chiedersi se le istituzioni e le prassi politiche siano quanto di meglio meglio al mondo. Insomma a mettere in discussione un sistema che non viene mai messo sotto esame essendo per definizione perfetto ed esposto semmai solo a rinnegamenti individuali.  Un collaboratore di Moore, Jon Schwarz,  ha scritto che in realtà il cuore dell’ideologia americana che il regista a voluto colpire, consisterebbe nel postulato che le persone sono cattive e che vanno coartate e sorvegliate per impedire che distruggano tutto. Ma questo è è un ennesimo depistaggio che fa deragliare il discorso su un effetto e non sulla causa.

Però è inutile preoccuparsi tanto il film non lo vedremo: esso è inviso non solo alle elites degli states, ma anche a quelle europee che vivono lautamente della loro mistica imitazione e devono fare di tutto per normalizzare al peggio le cose. In ogni caso  prima dovranno estinguersi le dinastie di vampiri, zombi, spose in cerca di vestito, lupi mannari, sognatori culinari, disabili in vetrina, obesi senza speranza messi ai manubri, celebrazioni di spie, presunti eroi e reali supereroi, con tutte le loro duplicazioni locali, per non dire dei polpettoni oscarati, eterni remake di fondazione, la cui natura parrebbe dar ragione a Schwarz, nonostante l’ossessione del politicamente corretto più superficiale. il meglio dell’America è ormai il peggio per l’America.


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