di Lucio Causo
André Gill, “Alexandre Dumas” (Copertina de “La Lune”, II/1866)
Si noti che A. Dumas tiene in mano Auguste Maquet come un pupazzo
Alessandro Dumas padre ha messo il suo nome su 257 volumi di romanzi, 25 volumi di drammi, 12 di ricordi, 34 di narrazioni di viaggi, un centinaio di volumi di storia, un dizionario di cucina. Sebbene lavorasse giorno e notte, senza mai correggere, e la creazione fosse per lui una gioia, e sebbene le sue invenzioni sembrassero nascere come per incanto sotto la sua penna, non era umanamente possibile che egli producesse, da solo, quella montagna di libri. Una famosa caricatura di Marcellin (stampata nel Petit journal pour rire) lo rappresentava, è vero, seduto alla sua scrivania d’abete, con una penna fra ciascun dito e l’altro, e cioè con quattro penne in ogni mano, nell’atto di far scorrere quegli otto strumenti di lavoro nella sua carta azzurra, mentre un garzone di ristorante lo imboccava; ma per quanto avesse muscoli di acciaio e nervi a tutta prova, non è possibile che egli superasse quella somma di lavoro che nessuno potrebbe superare impunemente.
Perciò bisogna ammettere che Alessandro Dumas ha avuto dei collaboratori. I principali sono Adolfo di Leuven, il suo primo amico, Lockroy, Auguste Maquet, Paul Maurice, Anicet Bourgeois, Goubaux, Bocage, Emile Souvestre, Hippolyte Romand, Octave Feuillet.
Ma è del pari accertato che Dumas, autore responsabile, rivedeva i manoscritti, e alcuni sviluppava, altri rifondeva, a tutti imprimendo le caratteristiche della sua maniera, non osiamo dire del suo stile. Sicché l’opera sembra uscita da un solo cervello, e animata dallo stesso soffio e dallo stesso spirito.
E’ inverosimile che il Dumas abbia detto un giorno a proposito di un suo romanzo:
- “L’ho firmato ma non l’ho mai letto”.
Un’altra ragione c’induce a credere che la forma, se non il piano e l’invenzione dei suoi lavori, deve essergli attribuita; e che gli autori già citati come suoi fornitori ordinari scrivono tutti meglio di lui.
Quando egli commetteva qualche plagio, lo mascherava abilmente, e, a chi gli rimproverava quei furti, rispondeva:
- “Non rubo, conquisto”.
Era verissimo: egli faceva propria la sostanza degli altri, imprimendovi il suggello del suo buon umore, alleggerendone il dialogo, riducendo la descrizione a pochi tratti, togliendo ogni idea astratta. Il trattato coi cottimisti letterati che Dumas stipendiava era rigorosissimo su un punto: il loro nome non doveva comparire né sul manifesto teatrale né sulla copertina del libro. Un processo clamoroso gli diede ragione contro i suoi detrattori, ma non convinse i suoi amici. Egli scrisse loro separatamente. Ecco la lettera aperta che indirizzò a Béranger intorno a quest’affare. E’ un momento di vanagloria e di elegante ipocrisia che faceva dire a Paul Meurice :
- “Quel caro Dumas, dopo una lettera simile, l’abbraccerei”.
Caro amico, come mai voi, intelligenza superiore per eccellenza, avete creduto al racconto popolare, accreditato da qualche miserabile di quelli che cercano sempre di addentare i piedi alati? Voi avete potuto credere che io tenessi fabbrica di romanzi?, che avessi, come dite voi, dei minatori per prepararmi il minerale? Mio unico minerale, caro amico, è la mia mano destra che lavora dodici ore al giorno. Il mio minerale è la volontà di fare ciò che nessuno aveva osato prima di me; il mio minerale è l’orgoglio (o la vanità, come volete) di fare da solo quanto fanno i miei compagni romanzieri tutti insieme): e di fare meglio di loro. Voi conoscete gli uomini, mio caro amico, e, conoscendoli, sapete che la discrezione non è la loro virtù principale, specie quando questa discrezione diventa abnegazione. Ora, credete voi che esistano nel mondo uomini devoti e discreti al punto d’aver fatto I tre moschettieri, Venti anni dopo e Monte Cristo e da lasciarne l’onore e il guadagno a un altro? No, credete pure che il giorno in cui io mettessi il mio nome a un lavoro non mio, sarei alla mercé dell’uomo a cui avrei sottratto così la sua parte di guadagno e di gloria. Io sono solo; non detto neppure; scrivo tutto con la mia mano. Vi hanno detto che faccio lavorare dei giovani. Ricordatevi di questo: i giovani esordiscono sempre nel mondo con una donna vecchia sotto braccio e, nella letteratura, con una vecchia idea nella testa. Bisogna aver molta esperienza per aver idee giovani. D’altronde, tutta la mia vita avvenire si compone di scompartimenti già pieni di futuri lavori abbozzati. Se Dio mi farà vivere ancora cinque anni, avrò esaurito la storia di Francia da San Luigi a noi. Se Dio mi dà dieci anni, avrò collegato Cesare a San Luigi. Ho da fare tutta l’antichità, o meglio, da rifarla; giacché finora l’hanno soltanto disfatta. Addio, caro amico. Se la calunnia batterà ancora alla vostra porta, sotto qualunque forma essa si presenti, fosse pure, nell’abito di un accademico, chiudetele, ve ne prego la porta in faccia. Vi abbraccio con grande rispetto e con la più sincera ammirazione.
A. Dumas
Eppure una volta il Dumas confessò la collaborazione: il 7 ottobre 1845, alla prima rappresentazione de I tre moschettieri, nel teatro dell’Ambigu.
Alessandro Dumas aveva il suo piacevole brio delle serate trionfali. Auguste Maquet, suo collaboratore nel dramma come era stato nel romanzo, vagava fra le quinte, mordicchiandosi i baffi con l’aria impacciata e desolata di un padre che non osa dire :
- “Il bel bambino che ammirate è mio figlio – Egli vide il Dumas parlare all’orecchio di Mélingue, l’incomparabile D’Artagnan”.
Mélingue fece un cenno di lieto assentimento col capo. – Si congratula con lui – pensò Maquet.
Poi Dumas si avvicinò al suo collaboratore.
– “Caro amico”, – gli disse – “vostra madre è in teatro?”
- “Certo”; rispose Maquet – “è in un palco di secondo ordine”.
– “Ebbene” – proseguì Dumas – “non perdete di vista quel palco” – e si allontanò, lasciando Maquet pensieroso.
Quando caduto il sipario, il pubblico chiese il nome dell’autore, Mélingue si avanzò alla ribalta e disse:
- “Signore e signori, il dramma che abbiamo avuto l’onore di rappresentare dinanzi a voi è di Alessandro Dumas (poi, alzando la voce)… e di Auguste Maquet”.
Un grido che veniva dal secondo ordine dei palchi precedette gli applausi. Era la signora Maquet che quasi sveniva per la gioia improvvisa.