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CHI SIAMO? IL DIBATTITO SUI CARATTERI NAZIONALI di Robert Kaplan

Creato il 14 ottobre 2013 da Conflittiestrategie

[Traduzione di redazione da: Who Are We? The Debate Over National Characteristics | Stratfor]

Quando qualcuno dice che è un americano, ciò significa qualcosa di molto specifico, giusto? Si connota un paesaggio specifico, un esperienza storica, una serie di inclinazioni culturali e un sistema di valore, giusto? Infatti, è stato affermato spesso che tutti gli americani – ebrei, cattolici, induisti, musulmani – sono, tuttavia, protestanti volontari, perché è il credo protestante e l’etica del lavoro a cui hanno tutti inconsciamente subordinato se stessi nel percorso dell’immigrazione e della naturalizzazione. Tutto questo è vero, naturalmente.

Tuttavia, è anche vero che il carattere americano sta cambiando e diventando, forse, più sottile. Questo era esattamente il tema dell’ultimo libro del politologo di Harvard Samuel P. Huntington, prima di morire,Who Are We? The Challenges to America’s National Identity (2004). Huntington ritiene che il massiccio afflusso di latinos negli ultimi decenni, unito con una élite americana che stava diventando sempre più internazionale e meno americana, ha reso lecito chiedersi se la stessa parola, americano, significasse la stessa cosa cui si è abituati.

Non sono solo gli americani che devono affrontare tali questioni di identità, ma gran parte del resto del mondo. L’immigrazione, la migrazione dei rifugiati, l’emergere di una élite globale distinta dalla élite nazionali, i viaggi naerei, l’aumento degli espatrii e via dicendo, stanno tutti, a poco a poco, erodendo la base della nazionalità, e con essa, le caratteristiche nazionali. Qui è richiesta una sfumatura, perché il nazionalismo può effettivamente essere in crescita nelle società asiatiche mono-etniche come il Giappone, e i movimenti populisti negli Stati Uniti – in parte essi stessi reazioni all’internazionalizzazione della società nel suo insieme – possono essere anche più irritanti che mai. Poi c’è il preoccupante spettro del nazionalismo anti-immigrati in Europa. Tuttavia, considerato che la tecnologia restringe la geografia e la gente si muove sempre più per il pianeta, le caratteristiche nazionali sono sempre meno nette ed il cosmopolitismo è in crescita.

Agli intellettuali liberali non dispiacerebbe. I caratteri nazionali – relativamente benigni per l’esperienza americana – si sono rivelati disastrosi per quella europea. Ecco il filosofo Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo ( 1951) :

“Quando i russi sono diventati slavi, quando i francesi hanno assunto il ruolo di comandanti di una forza nera, quando gli inglesi si sono trasformati in ‘bianchi’, come già per un disastroso incantesimo tutti i tedeschi sono diventati ariani,” ciò potrebbe “significare la fine dell’uomo occidentale. Indipendentemente da cosa gli scienziati possano dire, la razza è, politicamente parlando, non l’inizio dell’umanità ma la sua fine, non l’origine dei popoli ma la loro decadenza, non la nascita naturale dell’uomo, ma la sua morte non naturale”.

E tuttavia questa non può semplicemente essere la fine della discussione. Perché c’è una lunga, lunga strada dal completo razzismo al ragionevole assunto che, per esempio, gli americani sono generalmente diversi dai francesi, i norvegesi sono generalmente diversi dai greci, i tedeschi sono diversi dai cinesi, e così via. Anche se, nel mondo degli intellettuali umanisti la distanza è meno vasta di quanto si possa pensare. E per una buona ragione: la fede nei caratteri nazionali, portata all’estremo, è stata un elemento del nazismo e del fascismo giapponese. L’Olocausto è una vita distante da noi, un nanosecondo nella storia umana. Quindi è giusto che la vita intellettuale (così come la politica estera) esista all’ombra di esso. Il risultato è stato un assalto intellettuale alla nozione stessa di caratteri nazionali. Questo è qualcosa di cui le persone che studiano geopolitica devono essere consapevoli.

Hanno bisogno di esserne consapevoli dal momento che tali linee di tendenza intellettuale possono, io credo, migliorare la geopolitica piuttosto che indebolirla. La geopolitica è lostudio di “spazio e potere”, secondo le parole del politologo e ambasciatore Robert Strausz-Hupe alla metà del 20° secolo. Si tratta di come le diverse popolazioni, che abitano diversi spazi geografici, competono tra loro per l’influenza e la supremazia. Gli intellettuali possono accettare questo. Ma ciò che hanno più difficoltà ad accettare è che le popolazioni che abitano quei diversi spazi geografici rimangono statiche nelle loro caratteristiche. In realtà, dicono gli intellettuali, tali caratteristiche si sono evolute in modi complessi, anche se non sono mai state così semplici da classificare.

Penso, ad esempio, allo storico di Yale Timothy Snyder, che delinea il flessibile, primo moderno senso di identità condensato nella carriera del poeta del 19° secolo Adam Mickiewicz nel classico accademico del 2003, The Reconstruction of Nations: Poland, Ukraine, Lithuania, Belarus, 1569-1999.Mickiewicz, scrive Snyder, ha visto la Lituania “come una terra di molti popoli, ma di un destino essenzialmente polacco…” Non avendo mai messo piede a Varsavia o Cracovia, Mickiewicz è comunque diventato un “medium” per il nazionalismo polacco, e pur non avendo mai immaginato una Lituania indipendente dalla Polonia, gli scritti di Mickiewicz sono stati utilizzati dai nazionalisti lituani. Anche se, tecnicamente parlando, come nota Snyder, Mickiewicz sarebbe nell’odierna terminologia considerato un bielorusso. Poi ci fu il versatile statista e capo militare del periodo tra le due guerre, Jozef Pilsudski che, Snyder dice, “non scelse mai definitivamente tra la Polonia e la Lituania, “anche se parlava il “bielorusso popolare della campagna”. Sepolto nel castello di Wawel a Cracovia nel 1935 al fianco dei re polacchi, il cuore di Pilsudski è stato estratto e sepolto accanto a sua madre, a Vilnius, capitale della Lituania. Invece degli “elementi fissi della geografia”, Snyder documenta una ricchezza di scambi culturali e linguistici, brulicante di identità complesse e sovrapposte nel Nord-Est Europa.

Qui vi sono identità troppo sottili per essere adattate alle camicie di forza etniche previste dai nazionalisti moderni e dai dispensatori di caratteristiche nazionali, che hanno rifiutato le definizioni elastiche del primo modernismo – di cui Mickiewicz, per esempio, è stato un modello- e si sono rivolti invece alle illusioni della purezza di gruppo e ai “tratti nazionali innati” che hanno portato, in ultima analisi, al genocidio e alla pulizia etnica. In effetti, l’attrazione della postmoderna Unione Europea, sostiene Snyder, deriva -nonostante le difficoltà dell’unione – da un desiderio, da parte dei popoli dei paesi ex comunisti, di sfuggire alle restrizioni del nazionalismo moderno e delle caratteristiche nazionali e di entrare in un mondo di diritti individuali al di là dell’etnia.

La tesi di Snyder è suffragata dal fatto che la regione del Nord-Europa di cui egli scrive è più o meno piatta, con relativamente pochi confini naturali, ed è prevalentemente slava, favorendo i movimenti delle persone e, quindi, delle identità fluide. I montuosi Balcani, con una geografia meno favorevole a tale costante umana di andirivieni (in quanto sono sulla via delle rotte commerciali dell’Eurasia), e popolata com’è da gente di lingua romanza, ungherese, turca, greca, albanese e slava, potrebbero essere un po’ meno favorevoli al messaggio di Snyder. Anche se l’unico luogo nella Penisola balcanica dove in realtà la guerra è scoppiata dopo la scomparsa del comunismo è stato la Jugoslavia, quasi esclusivamente tra genti slave – piuttosto che tra slavi e altri. Inoltre, le identità di romeni, ungheresi, ebrei e altri non sono sempre così chiare come sembrano. In ogni caso , l’idea generale di Snyder è che l’identità del gruppo – e la guerra e la pace – dipende soprattutto da scelte umane e dalle contingenze che “sfuggono al ragionamento nazionale … “. Questo è qualcosa che chi pratica la geopolitica deve sempre ricordare.

Huntington, un intellettuale conservatore, temeva la perdita delle caratteristiche di identità e di gruppo nel caso dell’America, Snyder, un intellettuale liberale, vede il pericolo di un tale senso fortemente innato di identità nel caso dell’Europa. La lezione per la geopolitica non è quella di giudicare il valore di tali identità, ma di capire che ciò che unisce sia Huntington che Snyder è la loro profonda comprensione che cose come i caratteri nazionali sono intrinsecamente instabili e mutevoli, e possono essere in futuro sempre più difficili da definire.

Questioni di spazio geografico, ma l’identità di coloro che occupano tale spazio possono sempre alimentare generalizzazioni. Lezione: quelli che scrivono di geopolitica non devono solo guardare indietro ad un mondo del 19° o 20° secolo di popoli nazionali in lotta tra di loro per lo spazio, ma anche ad un mondo più intricato, più sovraffollato e più contraddittorio di identità sovrapposte dove elementari battaglie per lo spazio saranno, tuttavia, ancora importanti.


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