In Israele da tempo monta un caso che all’inizio di luglio ha trovato sbocco anche oltreconfine. Il Parlamento è seriamente intenzionato a deliberare la leva obbligatoria anche sulla comunità ultraortodossa. La questione, molto spinosa, da mesi alimenta manifestazioni di protesta a Gerusalemme e in altre parti del paese. Durante lo scorso febbraio, la Corte suprema ha sancito l’incostituzionalità della legge Tal, che dal 2002 risparmia ai giovani ultraortodossi il servizio militare seguendo l’osservanza delle Sacre Scritture, a cui gli Haredim dedicano la propria totale esistenza.
Il giornalista d’inchiesta Claudio Prandini in un suo articolo di qualche tempo fa ha cercato di analizzare il loro ruolo: «Israele, fin dalla sua nascita, ha sempre vissuto con la sindrome da accerchiamento che lo ha portato ad avere il terzo o quarto esercito più forte del mondo. E in effetti il mondo arabo circonda per tre quarti il territorio israeliano, ma tuttavia non verrà dal mondo arabo il colpo fatale. Il suo vero nemico si trova al suo interno, coccolato, protetto e favorito. È cresciuto a dismisura in questi ultimi anni grazie alle ondate immigratorie dagli Stati Uniti e dall’Europa orientale ed alle loro donne prolifiche (anche dieci figli per famiglia), tanto che tra quindici anni potrebbe diventare un serio problema per lo stesso Stato d’Israele».
Per “ultraortodossi” si indica un universo piuttosto eterogeneo di fondamentalismi ebraici che contribuiscono a completare un mosaico sociale altamente particolare. In molti casi gli Haredim si ramificano in sette chassidiche, ashkenazite lituane, sefardite orientali. Durante gli ultimi anni si è cercato di attuare indagini sociologiche sulla comunità ultraotrodossa, sebbene questo processo sia fortemente ostacolato dalla riluttanza di questi ultimi a partecipare a censimenti. Nel 2006 si stimavano circa un milione e mezzo di Haredim, diffusi in Israele, in Nord Europa e in Nord America. A Brooklyn la setta chassidica “Satmar Hasidim” (movimento religioso formato da ebrei rumeni e ungheresi) pare abbia un patrimonio stimato al miliardo di dollari, sempre nel 2006. La comunità è chiusa, e sin da bambini l’unico insegnamento praticabile è quello della Torah, con ruoli sociali molto netti. Il loro tasso di crescita è alimentato dalla natalità elevatissima (una media di circa 6-7 figli a famiglia), arrivando al 6% annuo e raddoppiando la popolazione ogni 20 anni. L’Haredim è in assoluto la forma di ebraismo ortodosso più rigida: bisogna seguire rigidamente le leggi delle Scritture promulgate da Mosè sul monte Sinai nell’anno 2448 del calendario ebraico, che non possono in alcun modo essere cambiate. Da qui, la loro avversione nei confronti di chi, pur essendo ebreo, non applica i princìpi dettati dalla Torah. Per gli Haredim appartenere alla comunità ebraica è dunque un esclusivo fattore spirituale: chi non lo fa, non appartiene all’alternativa visione di Stato senza mappa. Una concezione metafisica, e non di territorio: ecco perché, secondo un rabbino d’Israele, l’ebreo è il fratello chassidico ungherese di New York, e non il laico di Tel Aviv. Ecco perché la comunità ultraortodossa può essere la vera minaccia per Israele sionista, laico e democratico: gli Haredim non riconoscono alcuno Stato d’Israele. Secondo l’indagine di Prandini però, «gli ultraortodossi si dividono in due grandi gruppi: il primo gruppo sono gli “Haredim” (lett. “Coloro che sono timorosi della parola dell’Altissimo”, ndr), che non danno allo Stato alcuna legittimazione religiosa, lo reputano infatti un’eresia, ma lo accettano perché questi gli permette di vivere secondo i loro costumi e ne ottengono un sacco di agevolazioni; il secondo gruppo sono i “datiim” (o religiosi), cioè coloro che invece vedono nello Stato d’Israele l’unico luogo adatto per attendere il Messia. Entrambi tuttavia odiano l’Israele laico e democratico. Questo secondo gruppo rappresenta la maggioranza nell’esercito israeliano (fonti israeliane) ed è presente in buona misura anche nella Knesset». Da ciò si può notare come Haredim e datiim si distinguano in alcuni punti: i primi hanno una matrice fortemente antisionista, i secondi invece hanno dalla loro un nazionalismo spiccato. Insomma, Israele è pieno di ebrei anti-democratici e anti-sionisti. Già questa potrebbe essere una notizia, visto che spesso si considera il governo israeliano e le sue azioni politiche come emanazioni della volontà e dei bisogni di un intero popolo, spesso grossolanamente inserito in una logica democratica occidentale. C’è però una parte di fondamentalismo religioso che mantiene la linea della realpolitik e della volontà sionista: questo determina una situazione pesantissima, in cui due parti vanno allo scontro mentre un’altra, divisa da entrambe le contendenti, nicchia consapevole di quel peso sulle forze armate che, come recentemente ci ha mostrato l’Egitto, hanno forza propulsiva notevole qualora si decidesse di accelerare una campagna elettorale. Negli ultimi anni il problema del conflitto fra comunità ultraortodosse e lo Stato laico d’Israele s’è andato via via inasprendo, dettato dalla crescita numerica dei primi, e dalle politiche espansioniste del governo mai digerite dai “neri”, a tal punto da spingere la comunità Haredim a solidarizzare con la popolazione palestinese (“I Sionisti non sono Ebrei”, si legge spesso sui cartelli durante le manifestazioni di protesta), anche attraverso la propulsione datagli dal loro “ebraismo transnazionale”. Il paradosso è che negli ultimi decenni è stato lo stesso governo israeliano a creare ghetti in cui gli Haredim potessero vivere e svilupparsi, senza interferire con la vita laica: possiamo chiamarlo tentato suicidio? Quando si parla di Israele, la semiotica presenta davanti ai nostri occhi tutte le rappresentazioni figurative a cui siamo stati da sempre abituati: stelle di David, candelabri, bambini con le mani alzate e immense distese di disperazione in pigiama a righe. Tutte immagini forti inserite nell’immaginario collettivo più importante su cui si fonda la storiografia contemporanea, impegnata a non far sbiadire la Memoria sull’Olocausto nazista con tutto il suo corollario di nefandezze (leggi razziali, deportazioni, discriminazioni di ogni tipo, genocidi), tutte immagini volutamente utilizzate nelle manifestazioni di protesta ultraortodossa. Poi venne la questione arabo-israeliana, il gioco di fazioni e lo stillicidio lento, tanto inesorabile da sembrare quasi necessario per creare altri simboli nell’immaginario di un paese che di simboli vive, e dietro i simboli si nasconde. Il rischio è però quello di risvegliarsi in un mondo in cui non poter più ritornare coi piedi per terra, su una qualsiasi terra, anche se non sarà più quella Promessa.(pubblicato su Gli Altri Online del 27 luglio 2013)