C'è un articolo di David Carr del 2010, intitolato Why Twitter Will Endure, che per sintesi, entusiasmo e chiarezza, rappresenta la bussola perfetta per chiunque voglia avvicinarsi a Twitter. Il giornalista americano, da anni una delle firme più note del New York Times, non racconta soltanto del suo approccio diffidente e della successiva scoperta di questo strumento, ma con qualche esempio ne illustra anche pregi e limiti.
All'inizio Twitter può essere opprimente, ma provo a immaginarlo come un fiume di dati che scorre e in cui immergo un bicchiere di tanto in tanto. Molto di quello che mi serve sapere è in quel bicchiere: se Apple sta per presentare il suo nuovo tablet, se Amazon ha venduto più Kindle che libri veri a Natale, o se il voto finale al Senato è stato bloccato sulla sanità, riesco quasi sempre a saperlo prima su Twitter.
I migliori utenti su Twitter comunicano con parsimonia e precisione, ed ogni elemento - link, hashtag e commenti - è ricco di significato. Le conoscenze professionali che troverei insopportabili su ogni altra piattaforma, diventano improvvisamente interessanti entro i confini di Twitter.Sono passati tre anni dalla stesura di quest'articolo, un tempo lunghissimo per un tema come quello dell'informazione digitale, suscettibile di molti cambiamenti. Tutto il ragionamento che David Carr porta avanti per spiegare i motivi della longevità di Twitter, fornisce buona parte delle risposte alla disputa nata in questi giorni in Italia.
Quello sulla denuncia dei mali del web, è un dibattito vecchio, stancante e privo di qualsiasi organicità, basato su convinzioni che non trovano riscontro nelle esperienze di chi ha saputo integrare i pensieri a 140 caratteri col proprio lavoro o con il proprio, personalissimo svago.
Perché allora si è arrivati a certe dure prese di posizione? Come mai dichiarazioni e segnali di voler emanare delle nuove regole per presidiare il web arrivano dai presidenti di Camera e Senato e da buona parte del giornalismo mainstream?
Come direbbe Walter Sobchak: questo non è il Vietnam, è Twitter, ci sono delle regole!
E infatti le regole ci sono. Basta digitare 'Twitter + rules' su Google, et voilà!, tutte le informazioni che servono a delimitare l'uso corretto del social network sono a portata di mano. A volte non basta una segnalazione per fare in modo che un utente sgradevole smetta di importunarci, proprio per questo un ottimo sistema di "block" permette di liberarsi del fastidioso maniaco digitale. Un numero significativo di segnalazioni porterà alla chiusura dell'account da parte del sistema e fine dei giochi.
Si sa che un certo moto di autoreferenzialità colpisce chi si iscrive su Twitter ed è conscio che la propria notorietà lo porterà automaticamente ad essere un personaggio molto seguito. Ma non sta scritto da nessuna parte che questo spazio debba divenire automaticamente il pretesto per chiudersi in una torre d'avorio digitale. Chi vuole effettivamente essere aggiornato in tempo reale ed avere un'ampia gamma di notizie da tutto il mondo, farà affidamento su quegli utenti (reporter, fotografi o anche semplici cittadini che presenziano ad un importante evento) che non perdono tempo a ritwittare complimenti o a mostrare la propria saccenza intimando a chi muove una critica di smammare (ved. Pierluigi Battista). Forse il celolunghismo di Twitter ha dato davvero alla testa a certi personaggi nostrani che si abbassano al livello di chi vuole infastidirli. Se è vero che il modo migliore per allontanare i troll sia ignorarli, è altrettanto vero che a forza di scambiare critiche per insulti ci si ritrova ad annegare nel brodo di stelline dell'autocelebrazione.
Sempre dall'articolo di David Carr:
Su Twitter, voi siete il vostro avatar e il vostro avatar siete voi, quindi è meglio non agire come dei cafoni.Trovo che bastino queste due righe per mettere a tacere la querelle sugli AnonimiVigliacchi,NonCiMetteteLaFacciaPrendeteviLeVostreResposabilità,QuiSiStaCercandoDiDormireEDiPacificareilPaese!
Voglio dire, semplicemente, che esiste un' identità digitale, libera dal ruolo che rivestiamo nella quotidianità, dove si privilegia la sostanza di un pensiero piuttosto che la sua cornice. Se qualche Riotta volesse farvi credere che la chiave della popolarità o della serietà stia nel metterci la faccia, sappiate che negli Stati Uniti la libertà d'anonimato viene considerata tra quei diritti sanciti dal Primo Emendamento. D'altronde l' account di un Mario Rossi, con una foto sorridente e l'indicazione della città dove risiede, ci dice abbastanza di lui? Sta davvero mostrando la sua identità oppure finge? Cosa lo differenzia da un utente che ha deciso di iscriversi col nome di Ajeje Brazorf?
In due anni che frequento Twitter l'unica volta che mi è capitato di essere insultato il soggetto in questione aveva nome, cognome e foto della sua faccia. Se poi volete farvi un giro su Facebook e dare un'occhiata agli effetti deterrenti di un nome vero, servitevi pure. C'è un video di Gipi che trovo sempre attuale e che ripropongo spesso: una semplice dissolvenza di foto profilo a cui seguono i commenti sull'omicidio di Sarah Scazzi. Una bella raccolta di volti sorridenti che chiede senza problemi di poter linciare e torturare i colpevoli. Facebook è il social network più utilizzato in Italia, ma evidentemente non piace a chi soffre del contagio di reciprocità.
"L'odio nasce, cresce e si alimenta sul web" è nel novero delle generalizzazioni più futili, al pari di qualsiasi altra affermazione che cerchi di puntare l'indice verso un cattivo di turno che non ha contorni, confini e tratti specifici. E la violenza è quella di chi, ovviamente, non si rende identificabile, mentre chi occupa una posizione di rilievo in un qualsiasi scenario in cui può manifestare la propria arroganza, allora è più che giustificato.
Sono giorni che prosegue questo "non dibattito" nato dall'incapacità di utilizzare e capire un social network e argomentato dal pretesto della denuncia. Ancora una volta il grande spazio dell'informazione mainstream ha dato voce ad analisi approssimative e a capricci imbarazzanti. Chi continua a voler portare avanti una crociata verso il marcio del web, non riesce a rendersi conto che gli utenti di Twitter, specialmente in Italia e tralasciando le orde di Beliebers e affini, sono solo una piccola parte del paese. Quanti? Quattro milioni di utenti registrati, e poco più della metà attivi. Una percentuale che non giustifica un articolo titolato "Fuori i bulli dal nostro Twitter", come quello di Roberto Saviano, dove "nostro" sta ad indicare la parte buona di Internet e dove potrete fare conoscenza con il "neocinismo" della rete (mentre risulta non pervenuto il neoegoismo).
David Carr affida ad un'immagine biblica molto ironica la chiusura del suo pezzo:
Posso andare dove voglio sul Web, ma non vi è alcuna garanzia che la mia gang di Twitter verrà con me. Potrei anche avere un bel po' di seguaci, ma questo non fa di me un Mosè.
Luca Sofri, direttore de Il Post, in seguito all'abbandono di Twitter da parte di Enrico Mentana, ha scritto che soltanto gli utenti con un carico di followers grande come quello del direttore del TgLa7 (più di 300.000), potevano capire la sua situazione e il suo scoramento. Un'empatia che riguarda pochi eletti, a quanto pare. Mentana, poco prima di chiudere definitivamente il suo account stanotte, ha tradito il "saluto finale" ritwittando l'articolo di Repubblica dove Saviano rivendica il possesso del Super Santos cinguettante, come a far intendere la sua approvazione.
L'ultimo atto, forse, di una commedia da quattro soldi.
Per concludere il post e far calare il sipario su questo teatrino, ho voluto aggiungere un esempio illuminante su quello che accade oltreoceano.
Jimmy Kimmel, noto presentatore dell'omonimo spettacolo comico, ha inaugurato da diversi mesi uno spazio dove le celebrità leggono i tweet più cattivi che ricevono. Un modo perfetto per sdrammatizzare e ironizzare su un fenomeno che in Italia ha assunto tratti mostruosi e che in altre parti del mondo è solo un pretesto per farsi una bella risata.
Una risata che risuona come una gigantesca pernacchia.
Alessio MacFlynn