Chi tocca i fili

Creato il 16 novembre 2010 da Casarrubea

Giuliano e Pisciotta (Chilanti)

E’ bastato che il sostituto procuratore della Repubblica, Antonio Ingroia, decidesse la riesumazione del cadavere di Salvatore Giuliano, il terrorista nero scomparso a Castelvetrano la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950, perché molte cose che sembravano seppellite nella polvere, tornassero a galla come dopo un diluvio.

Antichi terrori sopiti sono tornati, come d’incanto, a far tremare molte persone e quando, poi, la polizia scientifica è arrivata fin dentro il cimitero di Montelepre, il 28 ottobre scorso, alcuni personaggi sono scattati all’improvviso fuori dalle loro case, come una molla.

Rosalia Pisciotta, ad esempio, sorella di Gaspare, è una di queste. Quel giorno, arzilla come una vespa, era davanti al cimitero, circondata da giornalisti di mezza Italia. Per quanto la tomba che si doveva aprire non fosse quella di suo fratello, urlava davanti a tutti: “Mio fratello è morto, andatevene”. Ma nessuno aveva messo in dubbio che suo fratello Gaspare fosse morto. Da quando, cioè, la mattina del 9 febbraio 1954, una voce disperata si era levata dal cameroncino numero quattro dell’Ucciardone di Palermo. Era il grido di Gaspare  che avvisava tutti i carcerati e le guardie di quel luogo umido e tenebroso, dove comandava la mafia, di essere stato avvelenato.

Perché la donna, allora, si era messa a urlare? Pensava forse che non si stesse aprendo la tomba di Giuliano, ma quella del fratello?  Non lo sappiamo.

Di certo, però, si sa che cinquantasei anni prima, si disse che suo fratello, luogotenente di Giuliano,  aveva ingerito un caffè alla stricnina, ritrovata poi, in grandi quantità, nel barattolo dello zucchero con cui il bandito avrebbe “addolcito” il suo caffè appena colato nella tazzina. Fatto molto strano, questo. E cosa più strana è che per oltre mezzo secolo storici e giornalisti vi abbiano creduto.

“Chi tocca questa storia, muore. Allora come ora.” Lo dice l’avvocato De Lisi nell’ultima intervista concessa al giornalista di Rai Sicilia, Rino Cascio, ai primi di febbraio del  2004, e rimandata in onda sabato 23 ottobre alle ore 14. In quell’anno il giornalista, in occasione del cinquantesimo anniversario della strana morte di Gaspare Pisciotta, intervistò di fronte ai suoi familiari anche Rosalia, detta Solina, allora sugli 80 anni, una delle sorelle del luogotenente di Giuliano.

Fu una sorta di illuminazione. A distanza di tempo e in vista della riesumazione che sarebbe avvenuta cinque giorni dopo, Cascio ha collegato l’indagine su Giuliano con le informazioni raccolte qualche anno prima, a Montelepre.

Che diceva Solina? Svelava che, all’indomani della scomparsa di Gaspare, il fratello Pietro aveva convocato la sorella per raccontare cosa era avvenuto veramente al proprio congiunto. Ammonendo tutti a tacere. “Stai attento a non dire niente ai miei figli di quello che sappiamo io e te – disse Pietro -. Perché altrimenti  anche da morto ti vengo ad ammazzare”.

Rischio che De Lisi  aveva sempre sostenuto. “La riluttanza a dire la verità fa paura, perché porta alla morte”, aveva precisato.

Cosa c’era di tanto scottante e indicibile nei segreti di cui erano depositari De Lisi e Pietro Pisciotta? Probabilmente qualcosa che si legava alle sorti di quelli che fino a quel momento erano stati i capi della banda: Giuliano che dall’estate del 1950 “riposava in pace” in un luogo che solo i giudici ora potranno verificare; e Pisciotta che aveva preannunciato di dire tutta la verità, prima che si concludesse il processo di Appello di Roma (1956). Forse era stato indotto ad autoaccusarsi di avere ucciso il suo capo, convinto che i carabinieri, e il colonnello Ugo Luca in particolare, lo avrebbero aiutato. E siccome, ormai, era disilluso e non credeva più a niente e a nessuno, aveva scritto ben quattordici quaderni di cui la Commissione Antimafia è riuscita solo a rintracciare l’indice, pubblicandolo nel 1998.

Ma le stranezze non finiscono qua. Se la vicenda di Giuliano facesse decadere l’autoaccusa di Pisciotta, la sorella Rosalia avrebbe molto da richiedere allo Stato per l’accusa infamante alla quale sarebbe stato costretto suo fratello, obtorto collo. Spinto da una causa di forza maggiore.

Come si vede, in tutta questa storia, anche l’istinto di conservazione, o l’omertà, giocano una loro parte. E non è poca.

GC e MJC


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