Chiapas: un viaggio semiserio
Da Silviapare
L’alba nebbiosa sulle montagne del Chiapas mi sorprese come un miracolo. Mi sforzai di tenere aperti gli occhi gonfi e irritati per non perdere un solo istante di quella visione. Scattai anche un paio di fotografie che in seguito avrei mostrato trionfante agli amici, i quali avrebbero abbozzato un’espressione di compassionevole interesse di fronte a quelle immagini scattate attraverso un vetro sporco, scie verdastre di alberi in movimento immersi nella foschia e illuminati da qualche debole raggio di sole. Ero partita da Città del Messico il pomeriggio precedente per affrontare un viaggio di sedici ore con un pullman categoria deluxe, comodissimo tranne che per l’odore di urina che aveva cominciato a fuoriuscire dal bagno un’ora dopo la partenza, e che alla fine era diventato così intenso da farmi temere un danno permanente alla mucosa nasale.
L'alba del Chiapas
Adesso la meta agognata era lì davanti ai miei occhi: ero finalmente arrivata a San Cristòbal de las Casas. Raddrizzai come potevo le gambe anchilosate dalla prolungata immobilità e mi trascinai fino alla posada, dove un patio dalle pareti rosa-arancio ed enormi vasi di terracotta pieni di calle riuscirono a farmi sentire davvero in Messico – novella Frida Kahlo/Georgia O’Keeffe – finché non stramazzai sul letto in stato di coma vegetativo. Prima però aprii lo zaino ed estrassi il mio tesoro: una bottiglia di Nobile di Montepulciano del ’95.
La notte in cui ero partita dall’Italia, dopo aver lavorato al computer fino alle tre e preparato lo zaino dalle tre alle quattro in attesa dell’amico che mi avrebbe accompagnata all’aeroporto, dove avrei preso un aereo sul quale non avrei chiuso occhio, raggiungendo così un totale di quarantasei ore filate di veglia nel momento in cui mi ero addormentata nell’economico albergo di Città del Messico che, come avrei scoperto poco dopo, fungeva anche da bordello, quella notte, dicevo, avevo ricevuto un ultimo messaggio elettronico dal mio misterioso contatto italiano in Chiapas: l’agronomo Sergio. Posso portarti qualcosa dall’Italia, gli avevo chiesto. Sì, aveva risposto, mi piacerebbe tanto una bottiglia di vino. L’unica bottiglia che avevo in casa era quel Nobile di Montepulciano che conservavo per un’occasione speciale. Cosa c’è di più speciale di un appuntamento al buio a San Cristòbal de las Casas, avevo pensato mentre avvolgevo la bottiglia in un asciugamano.
Poi ero andata in aeroporto tutta emozionata per il mio viaggio avventuroso e solitario, mi ero imbarcata, non avevo dormito, ero arrivata a Città del Messico, non avevo trovato l’albergo che mi aveva segnalato un’amica – la guida di Città del Messico non ce l’avevo, perché a me Città del Messico non interessava, io volevo andare in Chiapas e basta, e il giorno dopo avrei preso l’autobus e sarei partita subito per la terra degli agronomi zapatisti – e allora mi ero fatta accompagnare dal tassista nel posto più economico dei dintorni, dove, senza badare all’abbigliamento un po' succinto delle signore che popolavano la hall dell’albergo, ero salita in camera ed ero piombata – anche lì - in un sonno comatoso. La sera ero uscita a cercare qualcosa da mangiare, ma le strade buie e semideserte e la sensazione di essere osservata e probabilmente anche seguita mi avevano spinta a tornare in albergo e chiudermi subito in camera. Poco dopo avevo sentito bussare alla porta. Una voce maschile aveva biascicato qualche parola in spagnolo. Quando mi ero resa conto che si trattava di un aspirante cliente che voleva entrare nella mia stanza avevo cacciato un grido di terrore, al che il gentiluomo si era scusato ed era svanito.
Il giorno dopo ero corsa alla stazione degli autobus, dove avevo appreso con sommo sconforto che, essendo quella la settimana di Pasqua, gli autobus erano tutti pieni di emigranti che tornavano al paesello, e quindi sarei riuscita a partire solo due giorni dopo. E così avevo deciso che, per ingannare l’attesa, avrei fatto una gita turistica e sarei andata a Tehotihuacàn.
A Tehotihuacàn ci sono le famose piramidi del Sole e della Luna, nonché una marea di turisti che percorrono avanti e indietro l’immensa spianata azteca, quasi tutti muniti di cappello o di ridicolo ombrellino. Che idiozia, avevo pensato, che male vuoi che faccia questo bel solicello di marzo? Anzi, già che ci sono potrei abbronzarmi un po’.
La Piramide del Sole o della Luna, non ricordo quale di preciso
Tehotihuacàn sorge su un altopiano a 2270 metri d’altezza, che io avevo percorso in lungo e in largo, salendo su e giù per le piramidi dei crudeli precolombiani sacrificatori di esseri umani, con la faccia sempre rivolta verso il bel solicello di marzo. L’abbronzatura non aveva tardato a manifestarsi, tanto che il giorno della partenza, mentre giravo ripetutamente intorno all’atrio della stazione degli autobus per preparare le gambe all’imminente paralisi di sedici ore, la mia faccia mostrava ormai i segni di un’ustione fantozziana. La pelle, paonazza e coperta di bolle, era spessa come un copertone, gli occhi ridotti a due fessure, e dovevo tenere costantemente i capelli raccolti perché il minimo sfioramento dell’epidermide mi procurava un fastidio terribile.
(1/Continua)
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