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Chiapas, un viaggio semiserio/6: L'avventuroso canadese

Da Silviapare

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Ma non tutto era perduto: c’era ancora Mark, il vicino di stanza canadese che mi aveva portato la spremuta nei giorni di Montezuma. Mark, grande viaggiatore e grande narratore, durante un paio di piacevoli serate sulla terrazza della posada mi aveva incantata con le sue tremende banalità sull’Africa e sul Giappone. Già, perché Mark riusciva a rifilarmi frasi tipo: “Non potrai dire di aver davvero vissuto finché non avrai visto il Kilimangiaro”, senza che io, probabilmente obnubilata dalla febbre, gli ridessi in faccia. Un’altra volta, mostrandomi un colibrì sospeso a mezz’aria su ali invisibili, mi aveva spiegato: “Il Giappone è così diverso da tutto ciò a cui siamo abituati. È come vivere su un altro pianeta. Ho vissuto là per un anno, insegnavo inglese in una scuola privata, e in quell’anno ho avuto due ragazze giapponesi. Ma non ci capivamo. Adesso ho imparato ad apprezzare la solitudine. Non sono in cerca di una ragazza, sai. Ho solo voglia di viaggiare e di conoscere il mondo.” In quei giorni il mio cuore apparteneva soltanto all’agronomo, eppure dopo quelle serate ero andata a dormire sognando di viaggiare in paesi lontani accanto al bel canadese solitario.
Dopo la partenza di Sergio, per consolarmi del fallimento della mia causa rivoluzionaria, decisi di esplorare la vita mondana di San Cristòbal de las Casas. La cittadina, infatti, pullulava di giovani turisti della rivoluzione - soprattutto europei – e di giovani turisti in generale, cosa che la rendeva molto animata e simpatica. Se un posto deve essere pieno di turisti, insomma, molto meglio giovani e alternativi piuttosto che ricchi ignoranti e obesi.
Mentre i giovani alternativi si radunavano in bar pieni di foto del Comandante Marcos (già santificato mentre era ancora in attività, roba che non era riuscita neanche al Che), i veri messicani preferivano andare a ballare. E così, malgrado la mia storica avversione per qualunque ballo che imponga dei passi predefiniti e non mi consenta di scatenarmi come mi pare e piace, decisi di invitare Mark a ballare. L’avventuroso canadese, infatti, aveva visitato molti paesi del Sudamerica (soprattutto la Colombia, sulla quale mi aveva raccontato tante affascinanti banalità), e naturalmente sapeva ballare benissimo. Io naturalmente no. E dunque non so perché mi fosse venuta l’ideona di invitarlo proprio lì, in quella balera buia rischiarata solo da un globo anni ’70, con l’aria intrisa di sudore e di ormoni e tanta bella musica latinoamericana. Forse pensavo che, ammaliato dal mio fascino cerebrale, avrebbe passato la serata bevendo mojiti e raccontandomi qualche altra pallosissima avventura da bel viaggiatore solitario prima di portarmi finalmente a letto.
Ma nella balera, com’era prevedibile, ballavano tutti. Adolescenti dalle zone erogene ipersviluppate, vecchie imbellettate e saltellanti, uomini baffuti e impomatati. Sembrava un raduno di tarantolati.
“Non mi piacciono molto i balli di coppia,” gli dissi con un sorrisetto imbarazzato. “Sai, preferisco le cose un po’ selvagge...” Mancava solo che gli facessi l’occhiolino. “Però mi piacerebbe tanto imparare da un ballerino esperto come te.” (In realtà nessuno era mai riuscito a irreggimentare le mie membra anarchiche in una serie di mosse coordinate, né l’insegnante di danza moderna che quando ero adolescente mi aveva consigliato di darmi al nuoto, né lo splendido cubano che mi esortava “mueve la cintura”, o qualcosa del genere, mentre io lo guardavo adorante e mi sentivo flessibile come un pilastro di cemento.)
“Certo,” rispose il canadese. “Vado a prendere una birra e poi t’insegno.”

Chiapas, un viaggio semiserio/6: L'avventuroso canadese

Marsupio, zainetto e Lonely Planet: sono già a Palenque

Mentre lo aspettavo, seduta al tavolo, cominciai a battere i piedi e a scuotere le spalle per entrare nel caldo ritmo latino, ansiosa di piroettare fra le sue braccia. Dopo un quarto d’ora di quel batti-scuoti solitario mi girai a guardare verso il bar, ma il ballerino canadese sembrava scomparso. Aspettai altri cinque minuti, poi mi alzai e andai a cercarlo. Quando giunsi nei pressi della pista da ballo, un messicano enorme con un paio di baffoni a manubrio mi si parò davanti e disse: “Señorita, vamos a bailar.” “Ecco, veramente…” risposi, ma l’uomo mi strinse il braccio in una morsa di ferro e mi trascinò verso la pista. Lasciati andare, pensai, tanto è l’uomo che guida. E così, mentre rimbalzavo come una marionetta tra le braccia del messicano baffuto, mi ritrovai accanto al canadese solitario, che danzava decisamente fuori ritmo e letteralmente spalmato addosso a una piccola messicana dagli occhi languidi e dai seni piuttosto grossi. Quando il mio cavaliere mi salutò con un inchino senza chiedermi l’onore del prossimo ballo, presi la giacca e mi incamminai da sola verso l’albergo.
Il mattino dopo infilai un biglietto di addio sotto la porta della stanza accanto, dietro la quale mi era parso di udire una risatina femminile, e andai a preparare lo zaino per l’ultima tappa del mio viaggio: Palenque.

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