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- Eh, questo bambino avrebbe bisogno di mare - borbottò mentre la genitrice si incupiva sapendo che non mi ci poteva mandare. - Comunque qui bisogna togliere queste tonsille e già che ci siamo anche le adenoidi che sono solo un fastidio! - Ordinò con fare spiccio. La condanna era ormai passata in giudicato anche se io non avevo la minima cognizione di cosa volesse dire. Naturalmente ci si prese ben cura di non farmi sapere quale fosse il mio destino ed un bel giorno eccomi varcare per la prima volta la soglia dell'ospedale, avendo io provveduto a nascere direttamente a casa come si usava a quei tempi, a guerra appena terminata in cui i padri temevano soprattutto che i pargoli venissero scambiati in culla con altri di colore, lasciati in dono dalle truppe di passaggio. Ogni epoca ha le sue leggende metropolitane. Nella mia ingenuità non avevo capito cosa stessimo andando a fare, ma, essendo stato indottrinato al fatto che non ci fosse nulla di pericoloso, mentre al contempo era lasciato intendere che successivamente ci sarebbe stata grande abbondanza di gelato, mi lasciai condurre fiducioso e privo di timori.
Dopo una breve ed inconsapevole attesa, anche se i grandi stanzoni non erano positivi in sé, fui preso da mani adunche, anche se accompagnate da voci fintamente carezzevoli come quelle delle streghe dei cartoni animati, a cui però, io, poverino non avevo ancora contezza. Anche questa fu dura lezione che la conoscenza è importante nella vita. Seduto su un seggiolone, privo della rassicurazione delle braccia materne che disperatamente cercavo, guardandomi intorno spaurito, colto dalla sindrome dell'abbandono, cominciai a preoccuparmi seriamente, circondato da quei camici bianchi che non promettevano nulla di buono mentre il ciglio cominciava ad inumidirsi anche se il singulto tardava a venire. Ero un bambino timido. La figura temibile ma allo stesso tempo rassicurante di una grassa suora baffuta prese però forma incombente davanti a me e suadente e melliflua si avvicinò, come il poliziotto buono, scostando i cattivi figuri che mi circondavano e tenendo tra le mani un arnese lucente di acciaio. - Che bravo bambino. - mentì - Apri la bocca che mettiamo questa cosa, che così il dottore ti fa la fotografia.- Come è facile carpire la fiducia di un bimbo; mi lasciai andare alla dolce malia ritrovandomi di colpo tra i denti una mordacchia metallica che mi teneva le ganasce dolorosamente spalancate e il resto del corpicino immobilizzato da cinghie.
Senza fiato per la paura, prigioniero dell'orco che si avvicinava ghignante con orribili strumenti tra le mani, non ebbi nemmeno la forza di gridare mamma, anche perchè la maschera di ferro me lo inpediva. Ero impotente, che sensazione tremenda ed indimenticabile. Come Marocelli allo Spielberg, privo di anestesie, come evidentemente si usava (spero che non fosse una atroce malizia nei miei confronti), sentìi qualcosa che entrava nel fondo della mia gola per afferrare e strappare via le mie tenere ghiandole. Più volte andò e ritornò, come il nibbio rapace che divorava il fegato di Prometeo, finché fu sazio finalmente, ebbro della mia carne giovane e del mio sangue innocente. Quando mi liberarono, urlavo come un lattonzolo scuoiato e credo, poichè a quel punto i ricordi si fanno confusi, la pattuglia dei sadici se ne andò, abbandonandomi, misero sacchetto svuotato di forze a furia di gridare, nelle braccia della mamma a cui mi affidai in un deliquio rancoroso e colpevolizzante. Nei giorni successivi fui probabilmente insopportabile e impegnato soprattutto a incistare nella mia psiche una malfidenza ragionata che sarebbe stata mia futura compagna. Il gelato ci fu e in grande quantità. E questa fu cosa buona.
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Giallo oro.
Con la mamma non si scherza.
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