Nello Yemen il fenomeno delle spose bambine non accenna ad arrestarsi: è di ieri la notizia dell’ennesima morte di una bambina di otto anni, in seguito ad emorragie da lacerazione.
Non tutte muoiono, almeno non fisicamente. Bambine a cui viene strappata la possibilità di avere una vita normale, fatta di giochi, amici e un’istruzione adeguata.
In molti Paesi arabi la pratica è incredibilmente diffusa: secondo le Nazioni Unite una ragazza su nove è già sposata prima di compiere 15 anni. Si stima che ci saranno circa 14,2 milioni di nuove spose bambine ogni anno da qui al 2020.
Nella maggior parte dei casi si tratta di matrimoni combinati o veri e propri scambi di “merce“. Niente più che un affare economico. Si stipulano accordi che legittimano stupri. Ripetuti stupri ai danni di ragazzine che non sono neanche entrate nella fase della pubertà, bambine che chiedono solo di giocare nel cortile davanti casa.
È indicibile, inaccettabile, intollerabile. E cosa fa la società civile per arginare, anziché debellare, questo fenomeno? Ben poco. Esistono però, molte associazioni, come “Girls not brides”, che stanno lottando duramente per veder riconosciuta tale pratica come illegale, nella speranza di porre fine a questi matrimoni forzati. Noi, dalla nostra, ci auguriamo che questo avvenga il prima possibile.
Quello che seguirà è un breve racconto di mia fantasia. Un nome fittizio, Jamîla, ma una storia che si ripete all’infinito. Nel mio racconto Jamîla muore, o forse no. Forse è tornata a rincorrere le nuvole.
Mi chiamo Jamîla, ho otto anni e sono una sposa bambina.
Mi trovo sdraiata su qualcosa di freddo, sento un liquido colarmi giù dalle gambe, non so cos’è, ma mi si incolla alle cosce, sbircio come posso, è rosso scuro.
Ricordo quando l’anno scorso correndo giù per il cortile mi sbucciai un ginocchio. Mi uscì sangue, poco però, la mamma ci mise su un po’ di unguento, mi pizzicava, ma non sentivo tanto male. Ora mi fa male la pancia, è dura e mi scappa la pipì… mi sembra di fare pipì da ore.
Alcune persone sono chine su di me, io non capisco, dove sono Abu-l-hasan e mia madre? E i miei fratelli?
In fondo alla stanza vedo lui, Hazn, che in arabo significa “colui che porta afflizioni”. Tiene gli occhi in basso, come se cercasse qualcosa che ha perso. Serro le mascelle, trattenendo un grido.
Lui ieri mi ha fatto male. Mi disse: “Sdraiati qui, Jamîla” e io l’ho fatto; tremavo, non per il freddo, è solo giugno.
Poi si tolse la veste, pensavo volesse dormire vicino a me. Io non volevo, io volevo dormire con Fâtimah, la mia sorella maggiore. Poi però non mi si sdraiò accanto, mi salì addosso, mi schiacciava e mi baciava e leccava e sapeva di rancido. Volevo vomitare, ma mi trattenni pensando che se lo avessi fatto mi avrebbe picchiato. Ma piansi, le lacrime scendevano lente e non riuscivo a fermarle.
Uno squarcio dentro me. Improvviso, inesorabile. Urlavo, mi faceva male, ma non si fermava. Faceva versi strani, versi che non avevo mai sentito. Mi facevano orrore. Poi il buio.
L’inganno.
Abu-l-hasan mi disse che il giorno seguente saremmo andati in città a comprare stoffe e giochi per me e Fâtimah.
Uscii in cortile urlando per la felicità, raggiunsi la collina e respirai a pieni polmoni. Eravamo felici io e Fâtimah, insieme facevamo progetti per il futuro, davamo nomi alle nuvole, scoprivamo tesori nascosti che mettevamo in vecchie scatole di latta. Fâthima aveva un piccolo difetto alle gambe, ma sorrideva sempre.
Dove sei, sorellina, adesso?
Quel giorno, ore prima.
Abu-l-hasan mi spinge dentro. Lo guardo implorante: “Voglio andare in cortile, baba, ti prego”. Non ricordo cosa mi rispose, ma fece più forza sulle spalle. Inciampai su quel bellissimo abito, troppo lungo per me. In fondo lui mi attendeva. Cominciai a tremare e non smisi più.
La fine.
Dicono che sono morta. Mi chiamo Jamîla, ho otto anni ed ero una sposa bambina.