Tendiamo, in senso biologico, ad evolvere e ad affinare la nostra autocoscienza anche e soprattutto tramite l’interscambio con determinati enti “paternalistici”, figure chiave per la piena maturazione psichica. Il più delle volte lo start-up è rappresentato dall’iniziale corrispondenza diretta con le personalità genitoriali, ma tutto viene poi a differenziarsi ed a determinarsi in base alle scelte arbitrarie di ogni individuo: facciamo fuori il nostro stesso padre, in genere metaforicamente, allo scopo di inoltrarci nella ricerca caotica ed impertinente di poli paterni di riferimento alternativi e maturare un sistema, più o meno soddisfacente, di credenze e valori. Detto in toni meno boriosi, è proprio questo processo che ci porta ad amare una squadra di calcio, l’amico più grande, il più figo del branco o, decisamente più frequentemente, un qualunque idolo di massa che rientri a far parte delle luminescenti costellazioni delle arti o dello sport. Ed è stato questo processo che mi ha trascinato, circa 15 anni fa, in una incondizionata, duratura e sincera devozione quasi religiosa per un gruppo di studenti d’arte provenienti da Athens, Georgia, che nel 1980, appena ventenni, ebbero la felice idea di fondare una delle band più influenti dei decenni successivi, i R.E.M.. Sorvolando sui costrutti smielati dei vari scribacchini che hanno romanzato e distorto le biografie dei grandi nomi della musica, della politica e dello spettacolo (e considerando anche che, oltretutto, di biopic e cronache di vita cartacee ne abbiamo gravosamente pieno lo scroto), questo breve articolo vuole semplicemente raccontare di un credo, di una frattura e di una finale, illuminante riconciliazione. Nel 1994 avevo circa tre anni e “What’s the Frequency, Kenneth?” fu la colonna sonora della prima estate che riesco a ricordare, fatta di palazzi in costruzione che rosolavano sotto un sole a microonde, camice aperte, spiagge comuni, paradisi economici ed una vecchia Fiat 127 lanciata come uno sputo sui raccordi autostradali.
Poi venne l’età del rifiuto, dell’imposizione, della scoperta, della tele ormai inesorabilmente eletta al rango di “magister vitae”, e contro un mondo di addizioni e verbi da coniugare venne a salvarmi la scoperta del sempiterno “Automatic for the People”, nella sua trascendente totalità che il tempo, malgrado tutto, non ha mai scalfito. A 13 anni ci si innamorava con la stessa frequenza con la quale un paio di anni dopo si sarebbe innocentemente sofferto, e si stava per ore con la faccia giù sul foglio a scrivere le parole di “At My Most Beautiful”, “Be Mine” o “Why Not Smile” nei quaderni riempiti di frazioni e problemi composti, a tracciare quelle liriche con perizia e dedizione, come se fossero le coordinate per imparare ad imparare, la via maestra per un Essere ancora infante. Il liceo, i miei 16-17 anni, la rabbia inespressa, il punk, la volgarità, la ribellione ingiustificata: la pulsante totalità di queste determinanti mi prese in pieno, arrivò come un messo luciferino cavalcando le note di “Let Me In”, “You”, “So Fast, So Numb”, “Leave”, e di colpo mi trovai alla fine di un liceo troppo lungo da scontare, e non mi veniva da pensare ad altro che a “Nightswimming” ed al suo essere straordinariamente in linea coi miei più timidi pensieri, in una perenne etilica lucidità, come direbbe Poe. Ed ora eccomi qui, ormai ventenne, con la tastiera davanti. A cosa è servito parlare di ciò? Beh, Michael Stipe (con la sua tremula voce e le sue liriche in cut-up) è stato per me come per milioni di altre persone la figura idealisticamente paterna di cui parlavo nell’introduzione a questo articolo, la lanterna interiore che mi ha sussurrato la via da prendere in tutti questi anni, la stessa lanterna che, nonostante il sopraggiungere delle nevi più fitte, è riuscita a rimanere sempre e comunque accesa.
Lo è stato fintanto che, il 7 Marzo del 2011, dopo tre anni di silenzio (almeno per quanto riguarda gli album in studio), è stato dato alle stampe “Collapse into Now”, un lavoro che parla davvero, come enunciato dal titolo, di una crisi e di un collasso, ma in senso creativo e comunicativo: l’album ripesca infatti sonorità già ampiamente esplorate (“Überlin” non è forse l’appendice isterica e patinata di “Drive”?), tematiche testuali che si arrampicano grottescamente sullo specchio della credibilità artistica (“Oh My Heart”) mentre un onnipresente puzzo di roba usata permea fin dentro alla pelle di chi ha visto fino ad allora la vita attraverso il caleidoscopio evocativo di un poeta del rock contemporaneo quale il già citato Stipe. Magari siamo cresciuti troppo, o troppo poco, ma più il disco va avanti e più sembra quasi di sentire un senso di vuoto gastrico, lo stesso che si percepisce nelle case sgombre, appena dopo il trasloco: non è un flop, ma una resa generazionale, ed è forse grazie o a causa di ciò che, contro ogni previsione, la band si scioglie il 21 Settembre dello stesso anno, dopo 31 anni di militanza nei circuiti dell’alternative statunitense e mondiale, e poco dopo (ma guarda un po’) la raccolta “completa” e “definitiva” (“Part Lies, Part Heart, Part Truth, Part Garbage 1982-2011”) affolla i negozi di dischi e le banche dati di iTunes. Certo, magari la mia cognizione di integrità morale ed il mio senso di coerenza espressiva sono forzatamente ed eccessivamente pronunciati, ma tutto questo puzza maledettamente di manovra commerciale organicamente escogitata, di fondo-pensione per dei compassati signorotti di mezza età che ne hanno abbastanza di strimpellare in giro per il globo e magari, chissà, preferiscono mettere in ordine il giardino, viaggiare in India, tenere d’occhio i bambini, salutare l’establishment musicale con una trovata strategica economicamente edificante. “Oddio” ho pensato “fa che non stia succedendo anche a loro, ti prego!”.
Un tradimento morale studiato ed attuato, insomma: tutto di colpo si è ottenebrato, ogni mio “credo” sonoro è andato in ferie, il rifiuto di ascoltare anche solo il più breve giro di note dei loro album che tengo in casa è diventato categorico, senza appello. Mi sono riempito il petto dello stesso odio degli amanti traditi, ho venduto al vento ogni idea che mi ero fatto del rapporto di fiducia e sincerità che intercorre tra l’artista ed il suo più intimo seguito. Ma tutto ciò è durato appena il tempo di un respiro, la redenzione era già dietro l’angolo: avevo tralasciato (nella foga neo-adolescenziale del fan in lacrime) di ricordare al me stesso senziente che Stipe e soci, in quanto uomini, vivono la deprecabile mediocrità quotidiana, la devozione al profitto, sono insomma anch’essi colpevolmente parte di un sistema che produce, consuma e crepa, citando Celestini, e non le immortali divinità venute a profondere poesia alle nostre anime rattrappite, come io li avevo fino ad allora intesi. A chi di voi non è mai capitato, siate sinceri, di accorgersi della mortale ed umana banalità dell’uomo che si cela dietro l’artista stimato? Li perdono, si intende, perché sono state tante le sere in cui dialogavamo in due, io e lo stereo, e perché nonostante i flop discografici (vi ricordate “Around the Sun”?) e le recenti discutibilissime scelte operative hanno saputo regalare ad un consistente strascico di pubblico dei testi e delle canzoni che sopravvivranno a loro stessi, un sistema comunicativo e concettuale che trascende i decenni, le mode e le distanze culturali e generazionali come un grande, fulgido ideale di cambiamento. E si sa, qualsiasi ideale, nonostante la sua mutabile consistenza, non potrà mai tradire come tradisce un uomo.