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Chiese romaniche dei monaci vittorini nel Meridione sardo

Creato il 28 marzo 2015 da Pierluigimontalbano
Chiese romaniche dei monaci vittorini nel Meridione sardo
di Roberto Coroneo

Chiese romaniche dei monaci vittorini nel Meridione sardo
Prima di analizzare il contributo che l’ordine dei monaci benedettini provenienti dall’abbazia di San Vittore di Marsiglia diede alla costituzione del patrimonio architettonico sardo, è opportuna una sintesi degli avvenimenti storici che precedono l’avvento della civiltà monastica in Sardegna.
Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano, che governò l’impero romano dopo il trasferimento della sua capitale da Roma a Costantinopoli (oggi Istanbul in Turchia), concepisce il progetto ambizioso di riunificate l’impero romano riportando sotto il controllo della corte quei territori occidentali che, posti all’estremità occidentale dell’Europa, erano caduti in mano ai cosiddetti barbari. Si tratta di quei regni romano barbarici che si erano formati a seguito della crisi della parte occidentale dell’impero romano. Il progetto prevede la riconquista dell’Africa, occupata dai Vandali che avevano stabilito un regno che aveva come centro Cartagine; dell’Italia, caduta sotto il controllo del regno ostrogotico di Teodorico; della Spagna, che era andata incontro a un destino storico che l’aveva portata sotto il regno dei Visigoti. Essendo un progetto impegnativo e costoso, Giustiniano riesce a realizzarlo solo in parte.
Nell’ambito di questo progetto, la riconquista dell’Africa nel 533-534 viene realizzata nel corso di una guerra lampo e porta al controllo da parte dell’impero bizantino anche della Sardegna. Si determina così una prima importante particolarità della storia della Sardegna. Mentre il resto d’Italia cade prima sotto il controllo dei Longobardi, poi sotto Carlo Magno entrando nell’orbita dell’impero carolingio, poi segue
l’impero germanico con gli Ottoni, la Sardegna resta tagliata fuori da tutti questi avvenimenti perché dal 534 resterà sotto la totale dipendenza dall’impero romano di Costantinopoli per i successivi cinque secoli, fino al 1000 circa. Ciò non significa che la Sardegna restò isolata, poiché esistevano rapporti diplomatici con la corte dell’impero carolingio, con i ducati bizantini di Gaeta, Amalfi e Napoli che garantivano il collegamento con Costantinopoli e con l’estremità orientale dell’impero.
Fra il 950 e il 1050 il processo di graduale emancipazione politica porta all’allontanamento dell’isola da Bisanzio e alla creazione di quattro regni autonomi. Attorno al 1060 vediamo configurata una Sardegna non più unitaria, ma divisa in giudicati. Non dipende più dall’arconte di Sardegna che, a sua volta, era emanazione della corte di Costantinopoli, ma viene divisa in quattro regni, definiti giudicati. Essi avevano propri confini, erano divisi in curatorie, erano autonomi e ogni personaggio posto al comando, il re o giudice, era un’autorità suprema. Erano quindi dei regni, nel senso medievale del termine. All’inizio del 1000 la Sardegna incontra delle difficoltà dovute alle incursioni di genti islamiche, comandate da Mugahid, che non sono scorrerie, ma vere e proprie invasioni durate alcuni anni. Tutto ciò stimolò i ceti aristocratici locali a combattere e a rinsaldare il proprio potere e, forse, è proprio questo il momento di costituzione effettiva dei giudicati, il termine di un processo che ha radici nei secoli precedenti.
Chiese romaniche dei monaci vittorini nel Meridione sardo
Un altro fattore importante della cosiddetta “rivoluzione dell’anno Mille” che anche nel resto d’Europa ha comportato innovazioni in campo agricolo e trasformazioni nella società del tempo, è costituito dallo “scisma d’Oriente”. È il momento in cui la Chiesa si divide dando luogo al patriarcato di Costantinopoli e al papato di Roma: due distinte autorità a capo di due distinte Chiese che da quel momento avranno una vita autonoma l’una dall’altra, fino ad oggi.
Lo scisma d’Oriente pose ai giudici e all’aristocrazia sarda il problema della direzione verso cui andare. Si potevano rinsaldare i rapporti con il patriarcato di Costantinopoli oppure riconoscersi nell’Occidente e consolidare i rapporti col papato romano. Fra le due alternative è facile capire che la scelta vincente fosse quella di Roma, perché Costantinopoli era lontana e il potere imperiale veniva percepito come distante. Il papato romano poteva legittimare il potere giudicale e, infatti, nel corso della loro storia, i giudici cercheranno sempre un riconoscimento della loro autonomia da parte della Chiesa di Roma.
In questo quadro si può collocare l’esigenza, da parte dei giudici, di riqualificare il contesto isolano dal punto di vista della devozione, rilanciando il culto dei martiri e chiedendo al papa l’invio di monaci benedettini che venissero in Sardegna per insegnare, per istruire la popolazione e alfabetizzarla, almeno nei ceti più alti. Tutto ciò si tradusse in una crescita anche economica perché le comunità dei monaci benedettini che arrivarono furono in grado di impiantare un sistema fatto di unità organizzate, di piccole cellule nate come aziende agricole autosufficienti, in grado di far progredire economicamente il tessuto locale. Si assiste dunque alle richieste da parte dei giudici di monaci che si trasferissero in Sardegna, che creassero dei monasteri, che lavorassero, che edificassero per il bene della popolazione, sia come cura delle anime sia come crescita economica del territorio. Questi luoghi controllavano capillarmente le risorse agro-pastorali, versando le decime per la Chiesa ma disseminando il territorio di risultati positivi.
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Nel 1063 il giudice di Torres chiede a Montecassino l’invio di una comunità di monaci cassinesi ma durante il viaggio la nave viene assalita da pirati tirrenici, forse pisani, e la spedizione non va a buon fine. Dopo due anni l’invio riesce e nel 1065, nella zona di Ardara a sud di Sassari, nel Logudoro, si insediano due comunità cassinesi che fondano due chiese: Santa Maria di Mesumundu e Sant’Elia di Montesanto. Seguiranno altri arrivi di monaci cassinesi, camaldolesi, vallombrosani e, qualche decina di anni dopo, arriveranno anche i cistercensi. Questi apporti dall’esterno rivitalizzano il tessuto locale, sia in termini economici sia culturali.
Da Marsiglia, in Provenza, arrivano i monaci vittorini dall’abbazia di San Vittore. Questa chiesa costituisce un importante archivio di documenti che consentono di ricostruire la storia dell’ordine vittorino in Sardegna. Questi monaci sono chiamati dai giudici di Gallura e da quelli di Cagliari. La Gallura non ha conservato tracce consistenti della presenza di questi monaci, ma il giudicato di Cagliari mostra evidenti segni dell’attività dei Vittorini. Svolsero un ruolo di primo piano nella gestione della politica culturale ed economica. A Cagliari ebbero il controllo delle saline e dei porti per l’imbarco del sale, un centro nevralgico del tessuto produttivo cagliaritano.
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I giudici donarono ai monaci vittorini le chiavi di volta del culto martiriale del Sud della Sardegna: San Saturnino di Cagliari, Sant’Efisio di Nora e Sant’Antioco di Sulci, tutti protomartiri locali. Mentre le due chiese erano santuari ai quali fin dai secoli precedenti si legava una presenza monastica, Sant’Antioco era sede cattedrale, per cui si ebbero contrapposizioni forti fra i monaci vittorini e i vescovi della diocesi sulcitana perché i vittorini, oltre al ruolo economico, svolgevano un ruolo politico attivo per le sorti del giudicato. Altra ricaduta positiva della presenza dei monaci nel giudicato di Cagliari fu quella dell’attivazione dello scriptorium di San Saturnino. Nei monasteri lo scriptorium era l’ambiente nel quale si trascrivono i manoscritti e si confezionano i codici miniati che costituivano il patrimonio di ogni biblioteca e di ogni archivio medievale. È in questo momento della presenza vittorina che si formano quei nuclei testuali definiti Passiones, ossia la narrazione della vita, fra storia e leggenda, fra culto e tradizione, degli antichi santi martiri isolani.
A partire dal 1089 circa i Vittorini ebbero in donazione numerose chiese, che conosciamo attraverso gli atti con i quali i giudici le concedevano loro, affinché impiantassero i monasteri. Alle prime tre chiese si aggiungono quella di San Giorgio di Decimoputzu e numerose altre, fino all’ultimo inventario del 1338 che consiste in un censimento dei beni dell’ordine dei Vittorini in Sardegna. In quel periodo l’ordine era in forte decadenza e verrà sostituito nella sua funzione politica da francescani e domenicani che da qualche decennio costituivano la forza emergente nel contesto della società europea.
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La chiesa di San Saturnino sorge a Cagliari in un’area cimiteriale di epoca romana nella quale trovò sepoltura il martire locale Saturnino che la leggenda agiografica ci dice martirizzato sotto Diocleziano intorno all’anno 303. Nel santuario sorse una chiesa bizantina intorno alla metà del VI secolo, dopo la riconquista della Sardegna da parte di Giustiniano. La chiesa è rilevante dal punto di vista monumentale e architettonico anche nel panorama mediterraneo. Visto che conosciamo l’anno dell’atto di conferma della donazione, il 1089, possiamo certamente affermare che questa chiesa fu donata prima del 1089 ai monaci vittorini. Prima dell’ultima guerra la chiesa si presentava in stato di abbandono, trasformata da interventi edilizi subiti nel corso dei secoli. Nell’ultima guerra una granata colpì la chiesa provocando dei crolli e notevoli danni alla struttura architettonica. Fortunatamente la cupola rimase integra ma una copertura della chiesa rovinò al suolo e questo obbligò l’allora soprintendente Raffaello Delogu a procedere ai restauri dell’edificio. Fu l’occasione di studiare il monumento e nel restauro se ne propose un’interpretazione che diede all’edificio l’aspetto che possiede ancora oggi, a eccezione di alcuni muri che sono stati sostituiti da vetrate. Delle parti più antiche della chiesa bizantina resta soltanto la struttura centrale data da quattro grossi pilastri sui quali appoggiano altrettante grandi arcate per l’imposta della grande cupola centrale. Le strutture murarie ai lati appartengono alla ristrutturazione curata dai monaci vittorini che ricostruirono parte dell’edificio, probabilmente in cattivo stato al momento della donazione. L’intera parte orientale della chiesa, quella che si chiude con l’abside, appartiene a questa ricostruzione. Si tratta della muratura semicircolare che circonda l’altare e di alcune strutture che si notano a livello di fondazione. Non è dato di capire con precisione come fosse la chiesa in origine né come si presentasse quando fu donata ai monaci vittorini nel 1089.
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L’ipotesi parte dall’impianto tipico delle chiese bizantine a croce. Ai bracci ovest ed est se ne aggiungevano altri due che li intersecavano in direzione nord e sud. L’impianto doveva essere cruciforme con al centro la cupola. Una prima prova l’abbiamo in un disegno del 1631 contenuto in un manoscritto cartaceo della Biblioteca Universitaria di Cagliari. Il titolo è Alabanças de los santos de Cerdeña (“Celebrazione dei Santi di Sardegna”) e si deve a un ecclesiastico della cerchia arcivescovile cagliaritana in un momento in cui si intraprendevano ricerche archeologiche per ritrovare le reliquie dei martiri. Nel manoscritto si trovano inseriti due fogli che presentano la pianta cruciforme e una veduta della chiesa. Il fulcro è la cupola in muratura, impegnativa dal punto di vista strutturale, che presenta quattro finestrelle poste nei punti cardinali legati alla simbologia medievale che voleva le cupole ispirate al cielo, elemento di raccordo fra la sfera terrena e il cosmo. La struttura che regge la cupola è un cubo dato da quattro arcate dalle quali partivano i bracci che creavano la chiesa a forma di croce.
Osservando attentamente la cupola si nota che manca l’omogeneità della tecnica costruttiva; si intuisce che si è verificato un crollo e si è proceduto a una ricostruzione. I giri di pietra alla base della cupola sono blocchi in pietra grandi e allineati, mentre al di sopra di questi la tecnica cambia e si passa a piccole pietre a forma di mattoncini. Forse furono proprio i Vittorini a curare questo restauro murario, così come fecero per i quattro bracci della chiesa bizantina a croce che risultavano danneggiati. Anche i quattro robusti pilastri sono ricostruiti senza seguire lo stile architettonico classico che aveva ispirato la costruzione originale. In età romana negli spigoli si inserivano le colonne, come si nota nelle ville e nelle terme. Nella ricostruzione di San Saturnino i Vittorini si basarono invece sulle forme dell’architettura romanica europea dell’XI secolo, applicate dai monaci architetti che in Provenza, Costa Azzurra e Catalogna furono gli artefici della prima architettura romanica europea. Le stesse architetture esistevano in Valle d’Aosta, Liguria, pianura padana, Lombardia, Emilia fino ad arrivare in Toscana.
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Uno degli elementi romanici è la volta a botte, copertura in pietra che ha la forma di un semicilindro poggiato su un ambiente sottostante. Anche la volta a crociera è tipicamente romanica ed è costituita dall’intersezione di due volte a botte. Un’altra caratteristica del romanico è l’utilizzo dei materiali di spoglio, cioè elementi architettonici in marmo o altri materiali che non vengono lavorati appositamente per l’edificio ma provengono da altri monumenti di età precedente, che per vari motivi crollano o vengono abbandonati: terme, templi, strade porticate. Vicino a San Saturnino esisteva in età romana un tempio del sole e certamente molti materiali arrivano da lì. Si notano i pezzi di colonna riutilizzati nel nuovo edificio.
Una logica analoga porta ad interpretare anche la chiesa di Sant’Antioco che, come quella cagliaritana, sorge su un’area cimiteriale (di età punica), viene dedicata a un martire locale (di età adrianea), alla metà del VI viene ricostruita in forma di croce con cupola centrale e nel 1089 viene donata ai monaci vittorini. Oggi la chiesa è stata restaurata ma la facciata non rispecchia i colori originali: giallino, rosa antico e azzurro spento, caratteristici degli intonaci del momento della costruzione, coerenti con quelli del Carmine di Oristano datata al XVIII secolo. Purtroppo il colore mattone assegnato dalla Soprintendenza crea uno stacco troppo forte fra gli elementi strutturali e il risultato non è piacevole. Dall’interno della chiesa si può accedere a una rete di cunicoli che mettono in relazione le tombe a camera di età fenicio punica con le catacombe cristiane. Anche in questa chiesa si possono distinguere due fasi fondamentali: la chiesa a croce cupolata originale e le strutture di ampliamento e ricostruzione che probabilmente sono frutto del restauro compiuto dai monaci vittorini. Fino al 1966, quando iniziarono i lavori di sistemazione voluti dal parroco Don Armeni, la chiesa si presentava completamente intonacata con un pavimento a quadrelli ottocentesco che oggi è sparito, così come gli intonaci che sono stati totalmente rimossi, riportando la chiesa ad una muratura a vista grazie alla quale si può osservare la tecnica costruttiva della cupola, realizzata con pietre di dimensioni omogenee. Non essendosi verificato alcun crollo, la cupola di Sant’Antioco permette di dedurre come si presentava quella di San Saturnino. Questa chiesa consentiva di mantenere vivo il culto per Sant’Antioco, uno dei santi più venerati nel meridione della Sardegna da allora fino ad oggi, in quanto Sant’Antioco è il patrono dell’intera Sardegna. L’interno della chiesa mostra le strutture bizantine originali alle quali si addossano le murature dell’ampliamento.
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I monaci vittorini ebbero anche chiese più piccole, come ad esempio quella di Santa Caterina di Semelìa che si trova nel territorio comunale di Elmas ed è citata dalle fonti nel 1095. Non ha conservato molto della sua fase medievale ma si può intuire una semplice aula mononavata, con abside semicircolare a est. Una chiesa piccola che serviva certamente a una comunità di pochi monaci. Nel 1090 i Vittorini ottennero anche la chiesa di San Giorgio di Decimoputzu, trasformata nei secoli ma con facciata di tipiche forme romaniche. Il recente restauro ha visto la demolizione del bel portichetto che, pur non essendo attribuibile alla prima costruzione, le conferiva l’aspetto di una chiesa campestre, molto più elegante dell’odierna che mostra delle antiestetiche tamponature in cemento. Il portico a tettoia esisteva in molte chiese campestri ma oggi viene impietosamente demolito e sacrificato in nome di un presunto ritorno al “primitivo splendore”, laddove non è possibile ripristinare lo stato originario di un monumento trasformato nel tempo.
San Giorgio poteva essere una chiesa a tre navate, tipiche dell’età romanica, ricostruita con archi gotici in tempi successivi quando fu anche demolita l’abside dell’edificio romanico. Una sua ricostruzione porta a una verifica delle stesse dimensioni proporzionali della chiesa di Sant’Efisio di Nora. A Nora il portico costruito nel Settecento ha cancellato completamente la facciata originaria. Possiamo quindi utilizzare San Giorgio di Decimoputzu per capire come era la facciata di Sant’Efisio di Nora e, viceversa, utilizzare l’abside di Sant’Efisio per capire come era quello di San Giorgio. Queste due chiese sono contraddistinte da un’estrema sobrietà delle murature, senza archetti, senza semipilastri parietali (lesene), senza decorazioni, un modo di concepire l’architettura che si basa sulla maestosità e grandiosità delle strutture murarie, tipico dell’XI secolo.
Sant’Efisio di Nora nel 1089 viene donata ai monaci vittorini. Non conserva tracce evidenti di una chiesa più antica perché i monaci la ricostruiscono integralmente. Della prima chiesa non conosciamo la cronologia, ma fu costruita sulla tomba del martire Efisio che, secondo la tradizione, fu condotto a Nora per essere decapitato ai piedi della rupe di Coltellazzo e poi sepolto fuori le mura della città, nel punto dove oggi sorge la chiesa, poiché la legge romana proibiva le sepolture dentro le mura. Gli scavi hanno recuperato il tracciato di un’antica chiesa dentro la città, vicino alle terme a mare. È parzialmente sommersa e si presenta a tre navate. Fuori dalla città sorse il santuario di Efisio dal quale nel 1088 i pisani sottrassero le reliquie del santo per portarle a Pisa dove si sviluppò un culto. Nel camposanto toscano esiste traccia degli affreschi di Pinello Aretino che raffigurano Sant’Efisio e i compagni del martirio. Visto che la chiesa dentro le mura non era recuperabile, i Vittorini decisero di demolirla ed edificarne una di forme romaniche.
I blocchi utilizzati per le pareti sono grandi, lisci, ben squadrati e forse provengono dalle mura in rovina della città. La cripta dove si trovavano le reliquie del santo è ancora oggi accessibile. L’aula è divisa in tre navate da robusti pilastri e termina a est con la muratura semicircolare dell’abside. La copertura è in pietra con volte a botte su vani a pianta rettangolare. In due navate le volte sono divise da sottarchi, un elemento tipico della prima età romanica. La chiesa conserva traccia del passato punico della città: nella muratura romanica del fianco si nota inserita una piccola stele, un blocco parallelepipedo con una figura umana mummiforme, quindi egittizzante, che forse arriva dal tofet, cimitero infantile di Nora riportato alla luce a ridosso della chiesa da una mareggiata avvenuta una notte del 1888.
Le mmagini delle chiese di San Giorgio di Decimoputzu, Santa Caterina di Semelia e Sant'Efisio di Nora sono di www.amigosdelromanico.org, www.flickr.com (by Roberto Serra), e flickr.com
Le immagini delle chiese di San Saturnino, Sant'Antioco e San Giovanni di Sinis sono di di diocesidicagliari.it, cattoliciromani.com, spazioinwindi.libero.it
Ultima foto: Nora, di Sara Montalbano

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