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Chiudo così, con un pezzo di vita

Da Nicole Leblanc @NicoleTenenbaum
Chiudo così, con un pezzo di vita
Ero partita con lo scrivere una classifica dei film più belli visti al cinema nel 2013, ed una dei dischi più belli comprati sempre nel 2013, poi ho avuto una folgorazione sulla via di Damasco e ho deciso che quest'anno, dopo non so quanti anni, queste due classifiche non le faccio.
Io ho una famiglia piuttosto allargata. Ho due madri, una che mi ha procreato, conosciuta quando avevo 16 anni, e una che mi ha cresciuta da 0 a 18 anni, età in cui sono andata via da casa. Ho un solo padre, un half-brother compreso nel pacchetto di casa Leblanc, e fino a pochi anni fa avevo pure tre nonne.
La mia prima madre, quella che mi ha cresciuta, è ebrea. Mio padre, invece, è cattolico. Ne consegue che a casa mia, fino a quando ci ho vissuto, la visione della vita è stata sempre variegata, considerato che mia madre è pure insegnante di Storia, insomma, un'ebrea insegnante di Storia così sulla carta sta simpaticissima ai negazionisti. Beatrix, o Kiddo, come la chiama affettuosamente Steve, è una donna che è riuscita nell'impresa di educarmi e che ricambia con cortesia e signorilità il mio amore: onore e gloria.
Ho conosciuto mia madre biologica, Lisbet, quando avevo 16 anni, proprio in questo periodo: era il 19 Dicembre del 1997. Partii da Ginevra con il TGV, la linea ad alta velocità che raggiunge Parigi. Di lei conoscevo la voce, avevo visto delle fotografie, e sapevo che faceva la cantante e l'attrice a teatro. Per me era un'avventura, avevo scelto di andare a conoscerla senza rifletterci poi tanto. Avevamo parlato al telefono poche volte e mi aveva trasmesso un senso di profonda malinconia, nonostante nei miei sogni la immaginassi sempre come la fata Turchina, serena e bellissima. Forse è stata proprio quest'aura malinconica, questa vena auto distruttiva che percepivo nelle poche parole scambiate al telefono, a farmi venire voglia di andare a conoscerla.
Lisbet non venne a prendermi alla stazione, perché aveva le prove. Ricordo che presi un taxi e che andai all'indirizzo che mi ero segnata. Abita all'ultimo di cinque piani di un palazzo tipicamente parigino, con i pavimenti scricchiolanti e la catenella alla porta d'ingresso. Mi aveva detto che m'avrebbe lasciato le chiavi sotto lo zerbino e che dovevo suonare al primo campanello del portone, mi avrebbe risposto una signora anziana, io dovevo semplicemente dire "Bounjour, je suis la fille de Lisbet" e lei mi avrebbe aperto.
Entrata nell'appartamento rimasi stupita: una donna di 35 anni che incontra sua figlia per la prima volta in teoria le dovrebbe far trovare una casa pulita ed ordinata. Sembrava, invece, abbandonata frettolosamente. Io abituata all'ordine cristallino e al rigore di casa Leblanc, non riuscivo a credere che si potessero lasciare le briciole sui divani, i gatti sui cuscini del letto, i vestiti per terra, il bagno con il rubinetto che gocciola e un biglietto sul tavolo, vicino a qualche centinaio di Franchi, con sopra scritto à la Brasserie en bas on y mange très bien!! (alla tavola calda sotto casa ci si mangia molto bene).
Mi ero immaginata tutt'altro scenario.
Dovevo rimanere a Parigi tre giorni, già pensavo che quell'appartamento non sarebbe bastato per me e Lisbet, c'era solo una camera da letto, ed i divani nel soggiorno erano troppo corti, e rigidi.
Mi sedetti in cucina, di fronte al biglietto e ai soldi, e nella mia testolina da adolescente casinista che ero, con smanie sovversive, mi resi conto di aver fatto una cazzata. Forse non ero così "enfant terrible" come credevo di essere, non ero neanche pronta per affrontare madri mai viste.
Guardandomi intorno notai che non c'erano fotografie di Lisbet, solo la locandina teatrale di un musical, dove il suo nome compariva tra la fila di quelli dei coristi. Immaginavo, invece, l'appartamento di una persona di spettacolo, come una sorta di mausoleo dell'ego.
Lisbet arrivò alle sette di sera, entrò a casa mentre io stavo leggendo una rivista trovata in bagno, o per lo meno, mi sforzavo di farlo. Mi trovò seduta sul divano come si trovano i pazienti nella sala d'attesa. Era tutta imbacuccata, con un berretto a righe blu infilato in testa che le copriva quasi tutti gli occhi, uno sciarpone ciondolante e un cappottone color miele che le arrivava fino ai piedi.
Non so descrivere la sensazione che provai, ma mi sentii quasi sollevata nel vederla così. Mi venne incontro, non ricordo se riuscii ad alzarmi dal divano, so solo che il lungo abbraccio avvenne proprio sul divano. Indossava ancora il cappello e il cappotto, solo la sciarpa le era scivolata per terra andandosi ad infilare tra i piedini a zampa di leone del tavolino basso; aveva le mani congelate ed arrossate, gli occhi verdissimi stanchi e profumava di rosa, ancora adesso usa quel profumo: era ed è bellissima, di quella bellezza che scalda il cuore. Mi trascinò giù per le scale tirandomi per la mano, e ripetendo ossessivamente che l'ascensore le faceva paura. Mi spiace che non hai mangiato, mi spiace aver fatto tardi, mi spiace veramente, sono un disastro. Arrivammo alla brasserie, ed è proprio là che è iniziato il nostro rapporto. Pensavo di trovare al massimo un'amica, invece trovai una madre, un'altra, quella che incarna la parte di me che credevo fosse semplicemente spirito sovversivo, indolenza, e insofferenza verso tutto ciò che non appartiene al mio modo di vedere la vita. Dietro al disordine, agli spiccioli sparsi nei posti più impensabili, ai vestiti sdruciti e le file di piatti nell'acquaio; dietro ad una vita piena di rimpianti, di passioni bruciate in pochi mesi, di esperienze vissute d'istinto, ci sono le radici di una solidità che ignoravo potesse esistere, che è quella dei sentimenti sempre rinnovati, dell'affidarsi agli altri e nel continuare a credere nei sogni. E' quella dell'onestà dell'animo, che in pochissimi hanno. Capisco perché mio padre perse la testa per lei 31 anni fa, e sono felice l'abbia fatto.
Oggi Lisbet non è diversa da come l'ho vista la prima volta. Grazie a lei ho vacillato più volte, mi sono messa in discussione. Tante delle cose che faccio e che farò, le devo a quel 20 Dicembre del 1997, all'apertura del sipario che per troppi anni è rimasto chiuso, a quegli occhi verdi che mi hanno spesso spinto verso lidi che non mi ero concessa di esplorare. Quando si richiuderà il sipario io avrò raggiunto un equilibrio, e credo proprio che ciò avverrà alla fine dei miei giorni.
Finirà lo spettacolo quando non sarà rimasto più nessuno ad applaudire.
Fare la cantante vuol dire fare anche cose così.
Lisbet

Le Poète est semblable au prince des nuées 
Qui hante la tempête et se rit de l’archer; 
Exilé sur le sol au milieu des huées, 
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.
Charles P. B.

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