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Chris robinson brotherhood milano 7/03/2016

Creato il 08 marzo 2016 da Maurozambellini
CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD    MILANO  7/03/2016 
Col senno di poi viene da pensare che Chris Robinson non ne potesse proprio più dei Black Crowes visto che negli ultimi concerti della band georgiana a cui ho assistito sembrava impaziente di chiudere lo show in modo un po' troppo sbrigativo, un'ora a Vigevano nel luglio del 2011 con Luther Dickinson chitarrista a fianco del fratello Rich Robinson, due ore all'Alcatraz di Milano due anni dopo, magnifico concerto con Jackie Green al posto di Luther Dickinson ma con un Chris Robinson ombroso e avaro di feeling. Non ne poteva più, causa le incomprensioni col fratello e per un progetto in cui ormai, dopo tanto tempo, faticava ad identificarsi, oltre al desiderio di dare seguito ad una nuova avventura musicale appena abbozzata, quella Chris Robinson Brotherhood che lo vede decisamente ridimensionato come frontman e paritetico agli altri nei compiti, come fosse uno qualsiasi della band, il chitarrista ritmico e il cantante di un quintetto che dalla stagione psichedelica non ha tratto solo il sound e le visioni ma anche l'egualitarismo. CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD    MILANO  7/03/2016
 Quello che si è visto e sentito la sera del 7 marzo al Fabrique di Milano davanti ad un pubblico non numerosissimo ma squisitamente sintonizzato sulle frequenze di un retro-rock capace ancora di mandare in orbita come una potente droga psichica, è lo show di un innamorato perso degli anni sessanta e settanta, uno che dal vestire al suonare e al sognare è rimasto ancorato ad un' epoca in cui la musica era una estensione del proprio essere, del proprio vivere e delle proprie emozioni, senza filtri, compromessi, mediazioni, camuffamenti, nemmeno l'abito di scena visto che sia Chris Robinson che il chitarrista Neal Casal ed il tastierista Adam McDougall sul palco portavano le stesse camicie, le stesse maglie e pantaloni di qualche ora prima quando li avevamo raggiunti nel backstage per l'intervista. Sul palco, come nella vita e sulla strada, e di strada la CRB ne ha fatta tanta, considerato il fattoche esiste da prima dello scioglimento dei Black Crowes e i tre dischi pubblicati a proprio nome sono proprio poca cosa rispetto alle centinaia di concerti effettuati in giro per gli States e per il mondo e alle migliaia di chilometri macinati on the road. Growin' up in public, così la CRB ha sviluppato un suono che ingloba tutto quello che esiste negli anfratti del rock n'roll, dal blues al folk, dal funky al prog, dal jazz al R&B, riproponendolo con la sballata e sghemba metrica di una band psichedelica, cambiando ritmi in continuazione, lasciando liberi i propri musicisti di andare in direzioni diverse e poi re-incontrarsi in un tema conduttore vagamente abbozzato, concedendosi la più totale libertà negli assoli, jammando a più non posso ma non perdendo mai di vista la melodia che può essere nervosa e a tratti zoppicare, per poi riprendersi e ascendere ad un orizzonte che nei finali del brano diventa un magma di suoni e colori che disorientano nel più puro delirio lisergico. Rock psichedelico con l'attitudine del free-jazz, c'è stato un momento nel concerto milanese, mi sembra fosse in Beggars Moon, che il caos era talmente totale, sebbene controllato, che pareva di sentire il set delTony Williams Lifetime siringato a colpi di Parliament Funkadelic. Non ci sono limiti nella musica di CRB, anche quando si tratta di titoli ben noti, come Shake, Rattle and Roll oppureDown In The Flood di Dylan il gioco della scombine è talmente marcato che si è davanti a vera e propria sperimentazione dove la libertà assoluta dei musicisti è la cifra stilistica di una band che evoca un 'era in cui la musica era un continuo flusso di coscienza ed una esperienza fisica e psichica di piacere. Certo, esiste sempre una vaga linea conduttrice, che è costituita dalla melodia e dal cantato tarantolato lento di Robinson ma il tutto appare come una super session in cui il punto iniziale, uno dei momenti più rocknrollistici dello show, ovvero Taking Care Of Business, lo si ritrova nel finale dylaniato di Down in The Flood fondendo in una lunga jam tutto quello che ci sta in mezzo, dal clima estatico diStar or Stone una ballata che mette insieme Laurel Canyon e Allman Brothers ai Coasters riveduti e corretti di I'm A Hog For You impreziosito da uno strepitoso assolo di armonica di Robinson, dal Jerry Garcia di They Love Each Other dove pare proprio di essere ad un concerto dei Grateful Dead alla kilometrica Vibration&Light Suite dove tutti i presenti sono coscienti di quando si sale a bordo ma non di quando (e come) si atterra, dopo così tanto turbinio cosmico di schianti sonori, dilatazioni spaziali, refrain ripetuti e abbandonati, ritmiche che si attorcigliano e poi si liberano in un ammaraggio che lascia tramortiti. E' la musica psichedelica della Chris Robinson Brotherhood ed è una benedizione che sia passata da Milano perché di musica così ne abbiamo tanto bisogno per non sottostare ad un rock diventato, anche nei nomi eccellenti, un immenso karaoke.CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD    MILANO  7/03/2016 
CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD    MILANO  7/03/2016Chris Robinson, magro, ascetico, barba lunga e capelli fino alle spalle, canta abiurando il predicatore che era nei Corvi Neri, l'orgiastico tasso di gospel e soul nella nuova band è praticamente azzerato anche se rimane lo scampolo di una magnifica I Ain't Hiding presa dagli ultimi Black Crowes di Until The Freeze.....Before The Frost e la rivitalizzazione di Tornado rimasuglio delle sessions di Tall, il disco perduto dei Corvi. Come chitarrista Robinson si limita quasi esclusivamente alle parti ritmiche, mettendosi a volte in disparte e lasciando a Neal Casal il ruolo del John Cipollina di turno, il quale condivide le parti vocali e quando si invola con la sua sei corde è un misto di asprezze rock e acidità psichedeliche. Il cappelluto batterista George Sluppick picchia ma è anche capace di un dinamismo jazz, il bassista, Mark Dutton, fa partita a sé. In un angolo, piccolo, arruffati capelli neri e t-shirt nera trucida sembra tirato fuori da uno scantinato della New York pre-punk, è assorto sul suo strumento, concentrato come pochi, non guarda nessuno, mentre un Chris Robinson sorridente come mai si era visto scambia sguardi complici sia con Casal che con Adam MacDougall. Questi è la grande incognita dello show, almeno per come la pensano tanti del pubblico, perché se coi Black Crowes usava in maniera "compatibilmente" southern le tastiere qui si dà un d'affare quasi eccessivo, è l'alchimista della congrega, maneggia piano elettrico e altri marchingegni ma spesso deborda, è ridondante sia nei volumi che nell'insistere con rifiniture che diventano centrali nell'economia del suono della band, specie quando manipola un mini moog che alla lunga infastidisce. E' la parte kraut rock e prog del combo, dichiaratamente voluta da Robinson, grande fan di Popol Vuh e Can, un modo per scombinareancor di più una band che ruota a 360 gradi e non disdegna di inoltrarsi in territori che i vecchi fans dei Black Crowes preferirebbero non frequentare. Certo la torrida eccitazione ed il rock n'roll grondante sangue, sudore e polvere da sparo dell' antica esperienza eranoaltra cosa, adesso il Sud è lontano ed è la California freak la nuova patria, ma tutto si può accettare da questa nuova band e da questo eroico rocker, onesti negli intenti e con l'entusiasmo di una comune hippie, che suonano liberi e felici come fossimo nel 1970, infischiandosene dell''industria discografica e di un gusto di massa che sta su ben altra costellazione. Ribelli nel cosmo, duemila anni luce lontano da casa, è grazie ad artisti come loro per cui il rock n'roll pulsa ancora vitale nei nostri cuori e nelle nostre orecchie.
MAURO ZAMBELLINI Le foto sono di Marcello Matranga

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