Christine è considerato un lavoro minore di John Carpenter, perché la gente non sa che fare e emette giudizi, probabilmente.
Noi li lasciamo fare.
Christine è la storia di un’auto, una bellissima auto. Dalla nascita, con tanto di assemblaggio in una fabbrica di Detroit, fino alla (presunta) morte.
E già questo basterebbe a farne un film spettacolare. Avete mai visto rappresentata la storia di un’automobile?
Una vettura dotata di personalità, comunque, addirittura umanizzata, cosa che gli psicologi ritengono dannosa, quella di umanizzare gli oggetti. E infatti da questi antichi veti, da questa impronta immatura, nasce il divertimento e l’ossessione di Stephen King che, in pratica, fa ciò che vietano gli psicologi: dà a un’auto un nome di donna, in ciò fedele ai dettami di D’Annunzio, e stabilisce che essa, o lei, abbia davvero una personalità. Maligna.
King era talmente famoso, nel 1973, che si decise di mettere in produzione il film, affidato al Maestro Carpenter, prima ancora che il libro fosse pubblicato. Christine, romanzo e film, infatti, escono entrambi nel 1983.
E poi c’è la verniciatura a forno, quel rosso intenso, le cromature, i pulsanti d’accensione che fanno i capricci e dannano il lavoro di Keith Gordon, che la guidava e doveva farsela piacere come fosse una donna, più della sua fidanzata, le cromature, quella radio con le luci verdi, e la musica degli anni ’50, a cominciare da Buddy Holly.
Questo per me è il paradiso.
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Ma non solo Gordon, che tra parentesi interpreta un tizio chiamato Arine Cunningham, che non so, pare faccia il verso all’altro Cunningham, Ritchie (Ron Howard), uno pseudo nerd ante-litteram, malsano e incattivito da una breve esistenza di soprusi quotidiani. Comprensbile che divenga schiavo di una bella auto, specie se a minacciarti col coltello c’è una specie di Jim Morrison palestrato. Ma non divaghiamo, Christine sembra un inno ai sosia: Cunningham, il gemello cattivo, occhialuto, dell’altro sorridente e solare, Jim Morrison abbiamo detto, e poi Alexandra Paul, giovanissima e bellissima, che finisce, negli anni ’90, per indossare il costume intero, rosso come Christine, a fare la bagnina sulle spiagge di Malibù, insieme a David Hasselhoff, un altro che ha una storia con un’auto famosa, nera e con una striscia di luce rossa che ondeggia a destra e a sinistra; ebbene, Alexandra è sostituita, in alcune scene di Christine,dalla gemella Caroline. Non si nota affatto, bisogna saperlo. E infine, ultima in questa giostra di sostituzioni, la stessa Christine. Vennero usati 25 modelli di Plymouth Fury. Tanto per sottolineare che un film come questo non è che sia tanto elementare da girare, specie in tempi in cui la CGI non aiutava.
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Christine è stato, forse, l’unico film per il quale s’è chiesto e ottenuto, da parte soprattutto dello sceneggiatore Bill Phillips, un divieto per i minori, per timore che, una volta uscito senza, nessuno sarebbe andato a vederlo. E così Phillips riempì i dialoghi di “fuck”. Divieto confermato, basantesi solo su quello, in effetti, perché di violenza mostrata ce n’è pochina.
Altra coincidenza nella scelta del titolo, nel ’58, oltre a Buddy Holly, c’era un film intitolato “Christine”: niente di meglio, per una creatura nata con lo spirito atomico.
Perché, in quella carrozzeria lucidata, si scorge lucida follia e cattiveria, e qualche lampo nucleare, magari. Ma ancora sto divagando, mi capita spesso, quando torno ai fifties, almeno con la mente.
Di Plymouth Fury ne vennero costruite circa cinquemila. Per effettuare gli stunt, le scene in cui Christine investe persone, in cui si deforma per passare dalle strettoie, in cui devasta un’altra auto, ne vennero distrutte dai 13 ai 16 esemplari, a seconda delle fonti, cosa che fece infuriare gli appassionati e i collezionisti.
E non posso dire di non essere d’accordo: è un peccato mortale distruggere tale bellezza. Ma, come detto, nel 1983, c’era da fare qualche sacrificio, specie se il risultato finale doveva essere immortalare la vettura su pellicola.
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Missione compiuta, se a distanza di trent’anni, Christine di Carpenter, più che quella di carta di King, è nell’immaginario degli amanti del fantastico. Quell’universo di stranezze che ci mantiene vivi, che ci fa sghignazzare, che ci piace rivedere, ogni volta che la TV avara ce lo consente, pur sapendo perfettamente come va a finire.
Christine può essere assimilabile al mito del golem, priva da subito dell’influenza del proprio artefice, perché assemblata in fabbrica, autocosciente e bisognosa d’affetto, frustrata per colpa di un’esistenza “diversa”. A pensarci, ci si potrebbe scrivere un trattato di psicanalisi, sulla simbologia di Christine, ma sarebbe inutile.
La cosa più inquietante di questo film non è, in effetti, la violenza che sublima dai sedili in pelle, gli sterili tentativi di assassinare la fidanzata di Arnie, per gelosia e invidia, quanto la capacità di Carpenter di rendere efficace la voce della creatura: Christine comunica attraverso la radio, che trasmette sempre e soltanto musica dell’anno in cui è nata, ogni canzone azzeccatissima rispetto al momento in cui viene riprodotta.
La fine che fa è quella di Terminator, un altro golem, che però sarebbe arrivato solo l’anno successivo, il 1984.
Per l’effetto autoriparante si ricorse ovviamente alla banalissima inversione del girato, ma anche a plastica deformata, molto simile al metallo, e poi gonfiata con l’ausilio di pompe. Il risultato è eccellente.
In più, l’inquietudine finale, la sopravvivenza di una creatura che, in fondo, sappiamo essere indistruttibile, proprio perché impossibile, anch’essa ripresa in altre serie. È assimilabile allo spirito del sovrannaturale, quello che ci spaventa, ma cui non possiamo rinunciare.
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