In occasione di Chronicae – Festival del romanzo storico È scrivere ha sguinzagliato Bee, perché importunasse gli autori presenti e ponesse loro alcune domande ideate dalla Community.
Siccome sono stati tutti gentilissimi e disponibilissimi, nei prossimi giorni pubblicheremo le interviste che ci hanno concesso, seguendo l’ordine in cui sono saliti sul palco del Festival:
Jason Goodwin, Simone Sarasso e Andrea Molesini, Roberto Bui alias Wu Ming 1, Marcello Simoni e Carlo Adolfo Martigli, Valerio Massimo Manfredi.
Foto di Alessandro Magagna
Iniziamo dunque con Jason Goodwin: storico, ha studiato storia bizantina a Cambridge. Quando cadde il muro di Berlino partì dalla Polonia e raggiunse la Turchia a piedi; il resoconto del viaggio divenne il romanzo On foot to the golden horn, che nel 1993 vinse il John Llewellyn Rhys Prize.
La sua conoscenza dell’Impero Ottomano è stata la fonte di ispirazione per la serie di romanzi gialli ambientati a Istanbul nel 1830, che hanno come protagonista l’eunuco Yashim, scritti tra il 2006 e il 2014: L’albero dei Giannizzeri (vincitore nel 2007 dell’Edgar Award per il miglior romanzo), Il serpente di pietra, Il ritratto Bellini, L’occhio del diavolo, I cospiratori del Baklava.
Ad oggi i suoi libri sono tradotti in più di 40 lingue.
Jason è stato sempre accompagnato da Giulia Mastrantoni: giovanissima – 22 anni appena compiuti – e terribilmente in gamba, ha permesso agli spettatori (e a Bee) di capire ogni discorso di Goodwin, traducendo all’istante dall’inglese all’italiano e viceversa. Oltre ad aver già fatto da interprete per Sugarcon, ha lavorato in radio e per diverse agenzie di stampa, ma il suo vero amore è la scrittura: a breve uscirà il suo primo libro, la raccolta di racconti Misteri di una notte d’estate, edizioni Montag e nel 2016 vedrà la luce il suo primo romanzo, grazie a Panesi edizioni. Tenetela d’occhio!
Domenica 19 aprile, metà pomeriggio, quarto e ultimo giorno di Chronicae, vento freddo e facce un po’ stanche.
Jason Goodwin, grande protagonista del Festival – i suoi interventi nelle giornate di venerdì, sabato e domenica li potrete leggere nell’articolo dedicato all’evento che uscirà nel prossimo numero di È magazine – e persona splendida, ha accettato volentieri di rispondere a “un paio” di domande seduti al tavolo di un bar.
Ne è nata una chiacchierata estremamente piacevole e divertente, durata quasi un’ora, che qui di seguito vi riportiamo in due versioni: per prima la traduzione, a seguire l’originale in inglese.
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È scrivere – Quali sono i motivi per cui hai scelto di dedicarti al genere storico?
Jason Goodwin – Penso sia perché sono una persona nostalgica, che si sente a suo agio con le cose del passato. Credo che mi sia venuta l’idea di scrivere di Istanbul perché volevo ricreare alcuni dei romanzi ottocenteschi sulle città, visto che il romanzo è un prodotto della vita urbana. Se si pensa a Balzac, o Dickens, o anche ai primi romanzieri inglesi come Fielding, il romanzo è una forma che riflette la varietà, la profondità e il conflitto che si ha solo in un ambiente urbano. Così scrivendo di Istanbul ho avuto anch’io l’opportunità di ambientarla nel diciannovesimo secolo, probabilmente per via della familiarità che avevo con quei romanzi.
È – Scriveresti romanzi storici ambientati in città diverse o, se dovessi scrivere di altre città, cambieresti genere?
JG – Potrei cambiare il periodo. Quello che intendo è che il periodo migliore per scrivere di Istanbul sono gli anni trenta del 1800, perché è stato un periodo di cambiamenti: c’era l’amministrazione dei sultani, persone che cercavano di sviluppare e modernizzare l’Impero Ottomano, e le prime spinte verso l’idea di uguaglianza davanti alla legge, ma ovviamente questo creava un’opposizione e quindi un grande conflitto; inoltre per i lettori – e anche per me – c’è abbastanza modernità per poterla riconoscere, non è troppo lontano da noi. I progetti urbanistici della Istanbul cinquecentesca di Solimano il Magnifico sarebbero molto più incomprensibili. Noi abbiamo familiarità con gli alberghi, o le ambasciate, o alcuni elementi della vita della Istanbul del 1836 che sono abbastanza moderni per chi legge romanzi ambientati nell’ottocento.
È – Quanto è importante una documentazione accurata per poter scrivere un buon romanzo storico?
JG – Credo che per ogni mondo che si crea – come ho detto in precedenza, basta pensare alla fantascienza – si debba sapere molto bene quali sono le leggi della possibilità. Tutto deve essere coerente. La mia Istanbul è coerente, perché sono fortunato, perché ho letto la storia. Cioè, è questo il motivo per cui scrivo di Istanbul: è tutto quello che so in proposito. E ne so un sacco in proposito! Il che è un bene, però non so nient’altro, così non potrei scrivere della Parigi del diciannovesimo secolo senza fare un sacco di lavoro extra. Ma Istanbul per me è un libro aperto. Ok, sto esagerando. *ride* Ho ambientato il terzo libro a Venezia e a Istanbul, e conoscevo abbastanza bene la storia di Venezia, ma ho sbagliato alcune cose inerenti la vita in Italia. * sorride e arrossisce* Non sapevo che si chiamasse caffè corretto (in italiano durante la conversazione, NdR) a nel libro ho scritto che il mio commissario (idem) va in un bar per un coretto. Ma il mio amico veneziano mi ha detto “ok, però potrebbe anche voler dire piccolo coro”. *ridono tutti e tre* Non va bene, perché è una questione che tocca gli italiani che leggono il libro in inglese. Bisogna fare le cose per bene. Ho avuto una discussione in internet a proposito della frase “smoccolare”: ho scritto “Yashim smoccolò” intendendo che abbassava la fiamma, ma una persona ha detto che non significa “abbassare”, significa “togliere la cera sciolta”. Non è una cosa molto importante, però credo sia necessario fare le cose per bene.
È – Ormai siano nell’epoca di Google Earth, ha ancora senso recarsi di persona nei posti di cui si vuole scrivere, come hai fatto tu?
JG – No, non serve. Mi ricordo di uno scrittore inglese, William Boyd, che scrisse un libro ambientato a Manila (The blue afternoon, NdR) e ricevette una lettera dalla Società Amici Inglesi di Manila che diceva “ci è piaciuto tanto il libro, ma ci è dispiaciuto che non sia venuto a trovarci quando è venuto a Manila”; ha risposto che non è mai stato a Manila. Ma loro pensavano che il libro fosse preciso, che fosse perfetto. Insomma, gli scrittori dovrebbero avere immaginazione. Bisogna fare ricerche, bisogna leggere – io per esempio ho letto molti documenti e diari di altri viaggiatori – e questo ci dà la percezione di cosa si può fare in un posto, di che atmosfera c’è.
È – Attualmente che mezzi usi per documentarti?
JG – In realtà quando scrivo lo faccio direttamente sul file di Word, e se mi viene un’idea la scrivo in fondo alla pagina…
È – Una specie di promemoria.
JG – Sì, a volte mi ricordo, a volte no. *ridono* Capita quando mi viene un’idea sulla trama o sui personaggi o su altro: lo scrivo in fondo, come se dicessi “dopo controllo”.
È – Io faccio la stessa cosa. Come se fosse un “oh, questa cosa me la devo ricordare più avanti”, la scrivo in fondo alla pagina per ricontrollarla quando ho finito.
JG – E ci sono quelle volte che non controlli il fondo della pagina. Poi pensi “oh, c….. mi sono dimenticato”. *lui si copre gli occhi, le due ragazze ridono come matte* Però per quanto riguarda la documentazione ho il vantaggio di aver creato la storia: generalmente non ho bisogno di ulteriori grandi ricerche per sapere dove attraversare la strada, o dov’è un edificio, o come si chiama un funzionario burocratico, o cose del genere.
È – Quindi in realtà non ti documenti.
JG – No, non più. *ride*
Giulia – Ecco perché è così difficile farti da interprete, perché tu sai un casino di cose e io ne so pochissime. *scoppiano tutti a ridere*
È – L’altroieri hai detto che per catturare l’attenzione dei lettori occorre tanto sesso e una buona ambientazione. Questo per catturare l’attenzione. Ma come si mantiene l’attenzione, non solo per un intero romanzo ma anche per un’intera serie di romanzi?
JG – Credo che se il libro è divertente da scrivere allora sarà divertente da leggere per persone che ti assomigliano. * ride* E ovviamente non è vera la cosa del sesso.
È – Certo, era una battuta. *sorride*
JG – Però penso sia vero che bisogna portare la gente nel posto di cui si scrive. Occorrono personaggi, occorrono relazioni. Quello che mi diverto tanto a scrivere in questi libri è l’amicizia tra Yashim e Palewski, l’ambasciatore polacco, e in qualche misura anche la Regina madre; mi piacciono questi personaggi. In realtà non mi interessano granché le uccisioni. Una volta sono statao a una conferenza sui gialli, il titolo della discussione era “la trama è un’auto a noleggio”, e io sono d’accordo: la prendi all’aeroporto, la guidi, fai dei giretti, e poi la riconsegni all’aeroporto; quello che conta è chi c’è nell’auto e cosa si vede dal finestrino. *Bee annuisce affascinata* Mi piace come definizione perché chi se ne frega della trama, delle persone uccise, è solo un motore freddo. Molti scrittori di gialli sono interessati al crimine e alla mentalità del criminale, ma questo non mi interessa più, davvero; cioè, la gente fa cose assurde, poi se ne pente, la maggior parte viene uccisa da qualcuno che conosce, o si inventano un serial killer per andare avanti e avanti… no, non mi interessa. Quello che mi interessa è la situazione, per esempio… ta-daaan… *canta* ora dobbiamo scoprire come salvare l’Impero. *ride*
È – Come mai non scrivi fantasy?
JG – Ma… ma non mi piace.
È – Però ti piace quello che di solito si trova nei libri fantasy.
JG – Forse. Mi sa che non mi piacciono i mondi fantasy. Cioè, mi piace guardare Il trono di spade, però mi annoia, mi dà sui nervi. È abbastanza interessante il fatto che oggigiorno viviamo in un mondo civilizzato in cui sono tutti interessati a un’ambientazione semi-medievale: c’è Il signore degli anelli, Lo hobbit, Il trono di spade…
E – Vikings…
JG – Vikings, e anche i giochi dei ragazzini, tipo…
È – Assassin’s Creed…
JG – Esattamente. Tutti vogliono queste cose. Forse il mondo moderno è troppo complicato. Forse viviamo in un universo pseudo-gotico, non ti pare? Credo che il fantasy sia solo un miscuglio e che possa nascondere dell’ignoranza: chi scrive non sa niente, si inventano soltanto degli eroi con la barba lunga e la spada. *Bee spalanca gli occhi pensando alle possibili reazioni dei lettori o degli scrittori di fantasy* *Jason Ride* Il trono di spade è interessante perché è sanguinolento; ma si guarda facilmente, è costruito molto bene, è molto eccitante e quindi funziona. È figo, ma io non potrei scrivere questi lunghi, lunghissimi libri pieni di roba inventata.
È – Secondo te come mai i romanzi storici escono spesso in trilogie o in saghe? Il libro singolo non basta più?
JG – Forse perché abbiamo fatto tante di quelle ricerche che vogliamo usarle e riusarle. *ride* Ma è normale, basta pensare a Fast and furious: se Fast and furious 1 è un successo… arriviamo a Fast and Furious 7.
È – Quindi è solo una questione economica?
JG – No. O almeno non lo è per l’autore. Lo è per l’editore, per la libreria, per il lettore. Agatha Christie scrisse ottanta libri che erano ambientati tutti più o meno nello stesso periodo, all’incirca negli anni trenta del 1900, e non ha cambiato granché la trama o le circostanze.
È – O il protagonista…
JG – C’è Poirot, o Miss Marple, o qualcun altro, ma è sempre lo stesso detective. Credo che se spendi del tempo per costruire un personaggio principale come quello poi ci vuoi giocare di nuovo, non vuoi crearne un altro. Non so se vale per il romanzo storico, ma di sicuro vale per i gialli: tutti hanno il loro detective e lo portano avanti libro dopo libro.
È – Come ci si sente ad essere un autore internazionale? Cioè, è il sogno di molti.
JG – È fantastico. Era anche il mio sogno. Credo di essere stato parecchio fortunato con il fatto che ho scritto dell’Impero Ottomano: comprendeva una trentina delle nazioni moderne e alcune di esse erano molto piccole, come l’Albania. Dal punto di vista dello scrittore è ottimo, perché significa che gli albanesi vogliono sapere cosa ho scritto di loro nel mio libro. Così ho già trenta paesi dalla mia. *ride*
È – Quindi è una bella sensazione?
JG – Sì, anche se… lo sai… noi scrittori non siamo mai contenti, perché quello che è fatto è fatto, ma quello che dobbiamo ancora fare ci manda in crisi. Per cui siamo sempre preoccupati di come sarà il prossimo libro, ci immaginiamo se sarà buono oppure no. Posso credere di aver scritto un libro orrendo, ma la gente dice “Gesù, è grandioso”, allora mi dico “ok, è grandioso, ma il prossimo sarà orrendo”. Non sei mai sicuro, nemmeno quando i tuoi libri sono famosi. Cioè, adesso posso pensare “ok, sono abbastanza buoni”, ma anche “è stata solo fortuna, da ora in poi sarà un disastro”.
È – Dici che gli scrittori sono sempre pessimisti?
JG – Credo di sì. Ma non potrebbero essere davvero scrittori se non avessero uno sprone a continuare. Devono avere uno stimolo.
È – Torniamo alla scrittura. Quanto deve esserci di reale in un romanzo storico? Per esempio, hai detto che la Regina madre muore per necessità narrative, quindi come decidi quanto spazio dare alla realtà storica e quanto invece al mondo nuovo che stai creando?
JG – Credo non ci siano regole. Quando ho iniziato a scrivere questi libri mi sono sempre detto che per renderli ben riusciti doveva venire per prima la storia (nel senso di “story”, NdR). Non sono uno storico, non cerco di raccontare alla gente la storia (nel senso di “history”, purtroppo in italiano non abbiamo due parole diverse, NdR) dei Giannizzeri, a meno che non debba usare informazioni importanti per la trama. Però penso di essere abbastanza purista – per esempio, non voglio cambiare il nome del Sultano – e mi piace parecchio immaginare tutte le conversazioni che il Sultano potrebbe avere con la madre. Resto fedele ai fatti… almeno finché li conosco. *ridono tutti* Quindi non c’è un piano, ma darei largo spazio alla storia (“story”) – altrimenti si scriverebbero libri storici.
È – Che consigli daresti a chi vuole scrivere un romanzo storico?
JG – Innanzitutto di studiare il periodo. Poi di cercare per prima cosa i personaggi – perché credo siano sempre i personaggi a guidare la narrazione. E se non si può, di creare un personaggio che in qualche modo incarni il periodo storico, che abbia qualcosa che lo mette in relazione con quel periodo. Penso a C. J Sansom: i suoi libri sono ambientati al periodo di Enrico VIII e il suo detective, Shardlake, è una specie di avvocato con la gobba – perchè la gobba lo fa sembrare un personaggio del periodo, gli dà quel “sapore medievale”. È come vedere i personaggi al loro posto. Per me Yashim appartiene alla Istanbul del diciannovesimo secolo, e anche Palewski, e anche la Regina madre, e poi anche tutti gli altri personaggi. *ride* Poi, tornando alla trama… la trama è la trama.
È – La macchina a noleggio.
JG – Esatto. E credo che anche prestare attenzione ai drammi dei personaggi sia importante. Sono regole che si applicano a ogni genere: storico, futuristico, qualsiasi.
È – Tre romanzi storici che bisogna leggere almeno una volta nella vita (esclusi i tuoi).
JG – Escludo i miei senza dubbio. *sorride* Dunque, Guerra e pace di Tolstoj.
G – Uno proprio corto!
JG – Sì, molto corto. *scoppiano tutti a ridere* Devi prepararti mentalmente per questo lungo viaggio, non lo puoi leggere in un pomeriggio, però è grandioso. Poi Racconto di due città di Dickens e Il nome della rosa di Eco.
È – Umberto Eco? Gran risposta!
JG – Lui ha anche detto una cosa molto interessante: i libri sono spesso più intelligenti di chi li scrive. E ha ragione. È come quando la gente chiede “qual è il tema del tuo romanzo?”. Non c’è un tema in un romanzo, è solo una storia! Ma quando è finito a volte puoi vedere un tema. In esso c’è più di quanto l’autore intendesse coscientemente. Credo che questo avvenga quando un libro è buono, perché se è solo un libro di genere leggero il tema non ha il tempo di venir fuori – il pericolo dei libri di genere è che sono molto stretti, sono molto focalizzati sul genere a cui appartengono e non permettono alle idee di infilarsi dentro; non va bene, sono troppo controllati.
È – Qual è il suo personaggio storico preferito, e perché?
JG – Ora come ora – quest’anno, questo mese – mi piace molto un uomo di nome *lo scrive* Sabine Baring-gould. È morto negli anni venti del diciannovesimo secolo, era un vittoriano. Era il vicario della Chiesa d’Inghilterra ed è stato il romanziere di maggior successo di quel periodo. Ha scritto una Vita dei santi in venti volumi. Ha anche collezionato – viveva nell’ovest del paese, poco distante da dove vivo io – negli anni ottanta dell’800 è andato in giro a raccogliere canzoni folkloristiche popolari. Quest’uomo parecchio anziano diceva “beh, nessuno vuole ascoltare le vecchie canzoni, la gente ama le nuove canzoni popolari che vengono da Londra” e allora le ha trascritte; era la sua passione. Ha anche scritto un’autobiografia molto divertente.
È – Però è completamente sconosciuto. Almeno in Italia, in Inghilterra non saprei.
JG – No, è completamente sconosciuto anche in Inghilterra. Volevi che nominassi una persona famosa?
È – No, no, va bene. Mi dispiace solo per lui, perché era un personaggio interessante.
JG – Sì, anche a me dispiace per lui. L’ho scoperto per sbaglio: ho aperto quel libro, ho iniziato a leggere la sua autobiografia e mi sono detto “hey, questo tizio è incredibile”. Ma se me l’avessi chiesto tre mesi fa, quando non sapevo nemmeno che esistesse, forse avrei detto qualcun altro, probabilmente Barbarossa o Giulio Cesare.
È – Ultima domanda: prossimi progetti?
JG – Quest’anno ho compiuto cinquant’anni, così ho pensato che è il momento giusto per fare dei cambiamenti, per provare qualcosa di diverso. Quindi ho messo i diritti d’autore su un libro…
G – Quello che vuoi autopubblicare, di cui mi parlavi?
JG – No, quello poi lo dico, però prima voglio dire che farò un film. È la storia vera di un cavallo catturato durante l’Assedio di Buda, nel 1685, che è stato il primo cavallo turco ad arrivare in Inghilterra. Sarà proprio un bel film, come War horse o Black beauty. Poi scriverò il ricettario di Yashim, perché i lettori vogliono le sue ricette, e poi voglio scrivere altri romanzi – ma non altre storie di Yashim – magari ambientati nell’Inghilterra del diciassettesimo secolo.
È – E qual è il progetto di autopubblicazione di cui parlava Giulia?
JG – È il ricettario.
È – Come mai lo vuoi autopubblicare?
JG – Perché per tutti questi anni ho scritto i libri e li ho dati a qualcun altro, per cui non so niente del processo e credo, in una visione prettamente marxista, che il lavoratore debba controllare i mezzi di produzione. * ride*
È – *ridendo* Molto comunista.
JG – Sì, una visione del diritto comunista. Ma voglio imparare come si fa un libro, com’è il processo: trovare una stamperia, controllare l’impaginazione, trovare qualche compratore, scegliere la copertina e le illustrazioni, fare l’editing… tutto. È molto interessante: come avvengono i libri?
Qui l’intervista finisce – anche se la nostra chiacchierata è continuata – e vorrei ringraziare ancora Goodwin per la sua gentilezza. È veramente una persona carina, divertente e meravigliosa, e parlare con lui è stato un vero piacere.
Versione inglese
È scrivere – Why did you decide to write historical genre?
Jason Goodwin – I think because I’m governed by nostalgia and I feel very much at home with things from the past. I suppose when I was thinking to write about Istanbul I wanted to recover in it some of those of the nineteen century novels about cities, because the novel itself is very much a creation of urban life. If you think about Balzac or Dickens, and even these earliest novelists in english like Fielding, the novel is a form that reflects the variety, and depth, and collision of stories that you get only in urban environment. And so writing about Istanbul I had the same opportunity to set it in the nineteenth century, I suppose it has just became from my familiarity with those other novels.
È – Would you write historical novels set in different towns or if you had to write about other towns would you change genre?
JG – I might change the period. I mean, the best time for Istanbul to write about is 1830s, because it’s the time of change: there’s the administration of the sultan, people trying to develop and modernize the Ottoman Empire, and the beginning to move towards an idea that everybody’s equal under the law, but of course there would be resistance so that’s a great conflict; but also for readers – and for me – there’s enough in the modernity to be recognizable, it’s not too foreign. The house writing about Suleiman the Magnificent Istanbul, in the sixteenth century, would be much more foreign. We’re all familiar with hotels, foreign ambassadors, some elements of life in Istanbul in the 1836 which are quite modern to people who read novel set in nineteenth century.
È – How important is an accurate account to be able to write a good historical novel?
JG – I think it’s true that any world you create – and I’ve said this before, just think about science fiction – you have to know very well what the laws of possibility are. Everything has to be coherent. And in the case of my Istanbul it is coherent, because I’m lucky, because I’ve read history. I mean, that’s why I write about Istanbul: is everything I know about it. I know lot about it! Which is good, but I don’t know everything else, so I can’t write about Paris in the nineteenth century without lot of extra work. But Istanbul to me is an open book. Ok, that’s an exaggeration. *laughs* I did set the third book in Venice and in Istanbul and I did know Venice quite well on the history but I slipped up on some things about italian life. *smiles and blushes* I had no idea that’s the caffè corretto and in the book I wrote that my commissario stops at the cafè for a coretto, but my venetian friend said “yeah, but it can also mean a male voice quire”. *the three laugh* It’s not a big deal because it very matters to italian readers reading the book in english. So you have to get things right. I had one argument with someone on the net for the phrase “trimming the wick”: I said “Yashim trimmed the wick”, for me it means “turning down the paraffin light or the flame”, he said it doesn’t mean “turn it down”, it means you have to get the paraffin and cut it. It’s not very important but I think you have to get everything right.
È – Now we are in the era of Google Earth. Does it still make sense to visit places you want to write about as you did?
JC – I agree, you don’t have to go there. I remember there’s an english writer called William Boyd who wrote a book set in Manila (The blue afternoon, NdR) and the British Manila Friendship Society wrote him and said “we liked your book so much and how sad you didn’t come to see us while you were in Manila”; he said “I’ve never been to Manila”. And they thought it was exact, it was perfect. I mean, writers are supposed to have immagination. You have to research, you have to read – and in my case I’ve read a lot of accounts of other travelers and memoirs – and it gives you a good sense of what you can do there, a good sense of the atmosphere of that place.
È – So now what do you do for taking accounts and doing research?
JG – Actually when I write, I write directly on Microsoft Word and if I have an idea I put it on the bottom of this big long script…
È – A kind of “I’ll remember later”.
JG – Yes, sometimes I remember later sometimes I forget. *they laugh* That’s for if I have a plot idea or a character idea or something: I just put it into the bottom like “I’ll look through”.
È – I do exactly the same. Like “oh, this thing, I have to remember later” I write it on the bottom of the page to check it when I’ve finished.
JG – And sometimes you don’t check to the bottom. And later on you think “oh, f… I’ve forgot”. *he covers his eyes, girls laugh a lot* But for researching I mean, I do have this advantage because I did the history. I don’t generally need to create a big new research to know whether to cross the road or where the building is or the name of an officer in the Bureaucracy or something.
È – So you don’t take accounts actually.
JC – Not anymore. *he laughs*
Giulia – That’s the reason why is so difficult to interpret you, because you know so much stuff and I know so little. *they all laugh*
È – The day before yesterday you said that to capture the readers’ attention you need a lot of sex and an environment of quality. That’s because you have to capture attention. But how do you mantain the attention not only throghout the novel but also throughout a series of novels?
JC – I think that if the book is interesting to write then for some other people like yourself it will be interesting to read. *laughs* And the lot of sex is not true, of course.
È – Of course it was a joke. *smiles*
JC – But I think it’s true you need to take people to the place. You need characters, you need relationships. What I really enjoy about writing these books is Yashim’s friendship with Palewski, the polish ambassador, and at some extent the Valide; I like those characters. And I’m not really very interested in the method of the deaths. Once I went to a crime writing conference, the title of the discussion was “plot is a rental car”, and I think it’s true: you pick it up at the airport, then you drive and run, and then you drop it back to the airport; what’s important is who’s in the car and what we see out of the windows. *Bee nods fascinated* I think it’s quite good because who cares about plot, about people they killed, that’s a dead motor. A lot of crime writers are very interested in the crime and the mentality of the criminal but it stopped to interest me, really; I mean, people do crazy things, and they usually regret them, most people are killed by people they know, or they have to invent serial killers to make it go long and long… no, that not interest me. What interests me is the situation, like… ta-taaan… *sings* now we have to discover how would we save the Empire. *laughs*
È – Why don’t you write fantasy?
JC – I… I don’t like fantasy.
È – But you like stuff we generally find in fantasy novels.
JC – Maybe. I think I don’t like the fantasy world. I mean, I like watching Game of Thrones but it’s annoying, I find it irritating. I find quite interesting right now that we live in a civil world where everybody is interested in a quasi-medieval environment, there’s The lord of the rings, The hobbit, Game of thrones…
È – Vikings…
JG – … Vikings, and also the games that kids play, like…
È – Assassin’s Creed…
JG – Yeah, exactly. Everybody wants this. Maybe the modern world is too complicated. Maybe we live in a pseudo-gothic universe, don’t you think? I find that fantasy is just a mash up and it could conceal ignorance: people just don’t know anything, they just invent eroes with big beards and swords. *Bee opens her eyes wide thinking to the possible reaction of fantasy readers or writers* *Jason laughs* The Games of thrones is interesting because is slashy; but it’s very watchable, it’s very well constructed, it’s very exciting and so it worked. It’s cool, but I couldn’t write this long, long books with sort of all fool inventions.
È – Why do you think that historical novels are usually made up in trilogies or in sagas? The single book doesn’t serve for itself anymore?
JG – Maybe because we have to do all that research, we want to use it again and again. *laughs* It’s common, just think about Fast and furious: if Fast and furious 1 is successful… now there’s Fast and Furious 7.
È – So is it all about money?
JG – No. I mean, not for the author. It is for the publisher, for the bookseller, for the reader. Agatha Christie wrote eighty books and they were set in roughly the same period, 1930s or something, she hasn’t change that much the plot nor situations.
È – Nor the main character…
JG – You have Poirot or you have Miss Marple or whatever, it’s the same detective. I think if you take time to establish a lead character like that you want to play with him again, you don’t want to have another. I don’t know for historical but that’s surely for crime novels: everybody has a detective and they go on book up to book.
È – How is it to be an international writer? I mean, it’s the dream of a lot of people.
JG – It’s fantastic. It was my dream too. I think I’ve been very lucky because of writing about the Ottoman Empire: there was something like thirty different modern nations in the Ottoman Empire and some of them were very small, like Albania. From a writer’s point of view it’s good because it meant the albanians wanted to know what I’ve written about them in my book. So I have thirty countries on my bag already. *laughs*
È – So is it a good feeling?
JG – Yeah but… you know… we writers, we are never happy because what we’ve done is what we’ve done, but what we’ll do next is the next worry. So you’re always worrying about the next book, conceiving if it will be so good or not so good. I might think that I write a book and that is terrible but people say “God, it’s great”, and than I say “ok, it’s great, but the next one will be terrible”. You never know, not even when your books are famous. I mean, now I can think “ok, they’re quite good”, but also “that was my lucky time, for now on it’s a disaster”.
È – So authors have always a pessimistic view?
JG – I think so. But they can’t be completely authors without a push to continue. They must be urged to.
È – Let’s back to writing. How much has to be reality in a historical novel? For example you said that the Valide will die because of fiction necessity, so how do you decide how much space to be given to historical reality and how much to the new world you are creating?
JG – I think there’s no law. When I begun to write these books I always said to myself that to make them successful the story had to come first. I’m not being a historian, I’m not trying to tell people about the history of the Janissaries, unless I need to put some information which is important to the story. But I think that I’m quite purist – for example I don’t want to change the name of the Sultan – and I quite like to imagine all the Sultan’s conversations with his mother. I did stick to the facts… as far as I know what they are. *they all laugh* So there’s no plan but the space is largely given to the story – otherwise you’d just been writing history books.
È – Let’s give advices to people who want to write a historical novel.
JG – First of all to study the period. And then look for the characters first – because I think is always the character that drives the story. And if you can’t, to make a character that in some way embodies the period, that has something that makes him or her related to that period. Think about C. J. Sansom: his books are set in the time of Henry the eighth and his detective, Shardlake, is a kind of lawyer with a hump – because it sounds like he’s a medieval character, he has that “medieval flavour”. It’s about finding the characters in their place. For me Yashim belongs to nineteenth century Istanbul, and Palewski too, and the Valide as well, and then all the other characters. *laughs* Then back to the plot… the plot is the plot.
È – The rental car.
JG – Yeah. And I think to focus on the dramas of the characters is still important. The same rules apply to all writings: historical, futuristic, everything.
È – Three historical novels you have to read once in a lifetime (but you please must exclude yours).
JG – I’ll certainly would exclude mine. *smiles* Well, War and peace by Tolstoj.
G – A short one!
JG – Yeah, it’s very short. *they all laugh* You have to get your mind set to go on this big journey, you can’t just read it in a afternoon. But it’s great. Then Tale of two cities by Dickens and The name of the rose by Eco.
È – Umberto Eco? Great answer!
JG – And also he said a very interesting thing: book are sometimes more intelligent than their authors. And he’s right about that. It’s like when people say “what’s the theme of your book?”. There’s no theme in a book, a book is a story! But when it’s finished you can sometimes see a theme. There’s more in it than the author consciously intended. I think this happens if it’s a good book because if it is just a quick genre book then the theme doesn’t have time to come through – the danger for genre writings is that they’re very tight, they’re very focused on the genre style and they don’t allow ideas to come in; it ain’t good, it’s too controlled.
È – Who is your favourite historical character and why?
JG – Right now – this year, this month – I rather like a man called… *he writes the name* Sabine Baring-Gould. He died in the twenties of the nineteenth century – so he was a victorian. He was the church of England vicar and he was the most successful popular novelist of these day. He wrote a twenty-volume Life of the saints. He also collected – he lived in the west country, quite near where I live – and in the 1880s he went around collecting popular folk songs. This very old man was saying “well, nobody wants to listen to the old songs, people like the new pop music coming from London” so he wrote them down, that was his passion. He also wrote an autobiography which is quite funny.
È – But he’s completely unknow. I mean, in Italy, I don’t know in England.
JG – Oh, no, in England he’s completely unknown too. It has to be a famous person?
È – No, it’s fine. I’m just sorry for him because he was such an interesting person.
JG – Yeah, I feel a bit sorry too. I found him by accident: I picked up that book, I started to read his autobiography and then I said “hey, this guy is incredible”. But if you’d ask me three months ago – when I had never heard of him – perhaps I would have said somebody else, probably Barbarossa or Julius Caesar.
È – Last question: your upcoming projects?
JG – I turned fifty this year so I thought this is a good time to make some change, to make something different, so I put the rights to a book…
G – So you want to publish it by yourself, is it the one you were telling me?
JG – No, I would like to tell you about that but first I’d say I want to make a film. Is the true story of a horse which is captured on the Battle of Buda in 1685 and was the first turkish horse to came to England. It would be a really good film, like War horse or Black beauty. Then I’ll make Yashim’s cookbook because people want his recipes and then I want to write some other fiction – but not another Yashim’s story – maybe set in England in the seventeenth century.
È – What about the self publishing project she was talking about?
JG – Yeah, that’s the cookbook.
È – Why do you want to self publish it?
JG – Because for all these years I’ve been writing my book and then I gave it to someone, so I know nothing about the process and I think – in a proper marxist fashion – that the workers own the means of production. *laughs*
È – *laughing* Very communist.
JG – Yes, a communist-right view. But I want to know how to make a book, what is the process: find a printer, control the layout, find some people to buy it, decide the cover art and the pictures, do the editing… everything. It’s very interesting. How do books happen?
Here our interview ends – despite our chat did not – and I want to thank Mr Goodwin again for his kindness. He’s really a nice, funny, wonderful person and has been a pleasure to talk with him.
Non perdete la prossima intervista che pubblicheremo: Simone Sarasso.
Bee
Chi sonoEx miope, ex maestra, ex fumatrice, ex ragazza di parecchi idioti… so cosa sono stata, purtroppo non riesco ancora a vedere cosa sarò. Intanto leggo, scribacchio e perdo tempo. La parola che scrivo più spesso: MA.