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C'era una volta in cui le Città Stato elleniche affidavano al canto dei poeti sia la difesa della Patria che l'educazione dei cittadini alla Giustizia. Il poeta elegiaco più antico fu l'efesino Callino che, nella prima metà del VII secolo, prese parte alla lotta delle città ioniche contro il popolo nordico dei Cimmerii.
Ma tra le voci più possenti dell'elegia arcaica è annoverata quella del saggio Solone. Nato ad Atene da una nobile stirpe intorno al 634 a. Cr., dopo aver viaggiato molto durante la giovinezza, Solone tornò nella città natale e intraprese la carriera politica. Fu arconte e promosse la σεισάχθεια, ovvero il provvedimento dello “sgravio”, grazie al quale abolì il debito ipotecario. Successivamente attuò la riforma dello Stato ateniese, con la quale tentò di abbattere lo strapotere delle famiglie aristocratiche. Le nuove leggi incise su prismi di legno, ἂξονες , furono collocate nel Pritaneo. Inoltre le stesse furono esposte in pubblico, leggibili da tutto il popolo su pilastri di pietra detti κύρβεις. È rimarchevole la differenza con certi ministrucci di oggi, arroganti, saccenti e persino reticenti dinanzi alle legittime richieste di informazione. Solone, invece, cantò in forma elegiaca la sua opera di politico e di legislatore. Erano quelli i tempi dei sacri vati che, da allora in poi, sono stati venerati da tutti i lirici cultori della poesia civile e del canto di verità condivise. Nell' “ordine del cuore”, infatti, ogni uomo della terra antepone ad ogni altro valore il senso di equità e di giustizia.
E, forse, il nostro tempo è così triste perché non sorge il canto di un saggio Solone o di un animoso Tirteo, il poeta che da Mileto , verso la metà del settimo secolo a. Cr., si recò a Sparta, dove i cittadini lo accolsero con entusiasmo e, obbedendo ad un oracolo, lo elessero comandante dell'esercito nella guerra contro i Messeni.
Le antiche leggende tramandano la sacralità delle arti custodite dalle Muse.
Calliope è il “dolce labbro” dell'epica e dell'elegia. Il suo nome vuol dire infatti “dalla bella voce”.
Torniamo a invocare la Musa! Addolcisca lei le nostre labbra perché modulino un canto collettivo di civiltà .
Ed anche chiamiamo presso di noi le Cariti, Aglaia la splendente, Eufrosine l'allegra e Talia la rigogliosa. Le tre ancelle di Afrodite “dal trono variopinto”, rinnoveranno doni di Grazia e Bellezza per gli esseri umani. E allora la Poesia rinascerà! Gli uomini andranno per le loro città cantando un'elegia di fraternità! Saranno svelte le grate dal cuore, e dalle case. La vita accoglierà la Giustizia. E tornerà, finalmente la stagione dell'Εὐνομία (buongoverno), voluta dal cuore!
Ciascun uomo è un poeta e in gran parte tiene nelle sue mani il destino civile.
Più bello fa il mondo intorno a sé l'uomo che accompagna con la melodia del cuore l'opera sua.
Fare e cantare a un tempo è necessario per ottenere gloria e benessere in questo mondo. E, se si intonerà la poesia della relazione, il benessere sarà condiviso nell'ecumene.
La lirica greca delle origini risuonò come un “flauto magico” trascinante per i cittadini delle Πόλεις. E di certo, ancora oggi gioverebbe cantare la preghiera di giustizia rivolta alle Muse della Pieria dal saggio Solone! Bisognerebbe intonare questa elegia a voce spiegata nelle piazze italiane, per ammonire i tracotanti che governano oggi l'Italia: “le opere di Hybris non durano a lungo”!
Splendide figlie di Mnemosine e di Zeus Olimpio,
Muse Pierie, la preghiera mia ascoltate:
fate ch'io ottenga ricchezza dagli dei beati
e ch'io goda sempre buona fama presso gli uomini tutti;
ch'io dolce sia agli amici, amaro ai nemici,
gli uni mi rispettino, gli altri tremino.
Ricchezze io desidero, ma farne ingiusto acquisto,
no, non voglio: sempre, poi, giunse Dike (Giustizia).
La ricchezza donata dagli dei resta salda
dall'infima radice fino alla cima;
quella che s'acquista con Hybris (tracotanza) senz'ordine
procede; anzi, obbedendo, l'ingiusto operar
malvolentieri segue; presto le si mescola Ate;
dal poco ha inizio, come il fuoco,
insignificante prima, - rovinosa ha fine, poi;
ché le opere dell'Hybris non durano a lungo.
Ma Zeus sul fine di tutto vigila; all'improvviso,
come presto disperde le nubi il vento
di primavera, e dell'impetuoso mare infecondo
i fondali sconvolge, e sulla terra copiosa di messi
distrugge i bei seminati, e dall'alto cielo, sede degli dei,
sale, e di nuovo torna il sereno;
risplende sulla fertile terra del sole la forza
bella, e nessuna nube più si vede.
Così di Zeus è la vendetta, né per ogni cosa,
come i mortali, s'adira, né mai
gli sfugge chi il cuore ha malvagio,
e infine, comunque, si manifesta;
ma chi paga subito, chi dopo; e se qualcun
gli sfugge, né il celeste destino lo coglie,
poi, comunque giunge; innocenti pagano i loro
figli, o i discendenti, in futuro.
Tutti noi mortali - buoni o cattivi - nutriamo
una ben grande opinione di noi stessi
prima di un danno; allora son pianti; fino a quel momento,
bocca aperta, godiamo di vane speranze.
E chi da gravi mali è oppresso, pensa
questo: che tra breve guarirà;
uno che è vile crede d'esser prode, bello
chi non ha una forma graziosa;
uno che è povero, oppresso dalla sua miseria,
crede che, prima o poi, ricco sarà.
Chi s'ingegna di qua, chi di là; chi erra sul mar pescoso
sulla nave, sbattuto da venti contrari,
affannandosi a riportare a casa un lucro,
pericolo di vita correndo;
un altro, la selvosa terra dissodando, per un anno
serve, a chi stanno a cuore i curvi aratri;
chi, - apprese le opere di Atena e di Efesto -,
valente artista, si guadagna la vita;
chi, dalle Olimpiadi Muse nei doni istruito,
i modi conosce dell'amabile scienza;
chi profeta fu fatto dal lungi-saettante sire Apollo,
conosce le sventure che da lontano all'uomo
gli dei inviano; ma dal destino non liberano
né un auspicio; né sacrifici;
chi di Pane, ricco di rimedi, l'arte conosce,
è medico, e neppur per lui la fine è sicura;
spesso da un piccolo dolore nasce un gran male,
né alcun coi blandi farmaci calmarlo può;
chi da gravi morbi è afflitto, presto guarisce,
basta toccarlo con le mani.
La Moira ai mortali il male e il bene reca,
nessuno può sfuggir i doni degli dei.
(Solone, I Diehl)
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