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Ci guadagneremmo solo in tanto shabadabadà

Creato il 14 maggio 2015 da Malvino
La questione del se e del quanto la giustizia stia indebolendo la politica – ne parlavamo ieri commentando larticolo di Giovanni Belardelli uscito laltrieri sul Corriere della Sera (La giustizia onnipresente che indebolisce la politica) – merita che si faccia un minimo di chiarezza sui termini in cui si pone il problema, sennò a discuterne ingarbugliamo inevitabilmente la matassa. Senza intrattenerci troppo sui massimi sistemi, direi non ci sia scandalo nel periodico conflitto tra poteri che lo stato di diritto vuole separati e indipendenti: legislativo, esecutivo e giudiziario erano in principio tre funzioni di una sola autorità, quindi è del tutto naturale che di tanto in tanto ciascuno mostri la tendenza ad assorbirne almeno in parte gli altri due, non fossaltro a rammentarci che, se vuol esser mantenuto, lo stato di diritto necessita di una costante cura e sorveglianza, non è dato una volta e per sempre in forza di una sua intrinseca capacità di darsi stabilità nellequilibrio tra i tre poteri, che infatti a volte è mantenuta, quando uno dei tre mostra un indebolimento, con una transitoria azione vicariante di uno degli altri due, o di entrambi. È il caso che lItalia ha vissuto circa un quarto di secolo fa, quando il sistema politico, già da decenni afflitto da una grave crisi, collassò sotto il peso dei suoi errori: fu la magistratura a vicariare il vuoto di potere lasciato da un ceto politico ampiamente screditato, chiamato finalmente a render conto del suo fallimento. Era probabilmente inevitabile che questo favorisse degli eccessi, che infatti non mancarono, portando in breve a disdicevoli episodi di protagonismo da parte di alcuni esponenti della magistratura, che cominciò ad accusare un altrettanto inevitabile calo di consensi dellopinione pubblica che fino ad allora non aveva affatto percepito come prevaricante, anzi, il suo ruolo di supplenza. Di pari passo, il ceto politico procedeva ad un riassetto che lo portava con sempre più insistenza, e coi toni della più aspra polemica, a rivendicare le sue naturali prerogative, di cui lamentava lo scippo. Per quanto abbia cercato di sterilizzarla da ogni umore di lizza, non pretendo che questa lettura di quanto è accaduto in Italia venga unanimemente condivisa, anzi, suppongo che sarà oggetto di critica sia da chi pensa che quello della magistratura fu un colpo di stato, sia da chi pensa che la sua meritoria opera di bonifica fu resa vana da quel subdolo «cambiar tutto perché nulla cambi» che ridà forze al malaffare. Comunque si voglia leggerla, tuttavia, mi auguro che questa storia possa vederci d’accordo almeno su un punto: è la debolezza di uno dei tre poteri che lo stato di diritto vorrebbe separati e indipendenti a renderne forte un altro oltre il dovuto. Nel contempo, è inevitabile che il ritorno ad una condizione di equilibrio, quando e se questa si ottenga, sia segnato da fluttuazioni di forze di qua e di là dal limite che la teoria dello stato di diritto fissa per ciascun potere. E con l’articolo di Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera di lunedì 11 maggio, con quello odierno di Luigi Ferrarella, sempre sul Corriere della Sera (Il malessere delle sentenze), e con la lettera di Giuseppe Maria Berruti sul numero de la Repubblica oggi in edicola (Quando le sentenze rallentano la politica) direi che siamo al punto in cui alla giustizia si chiede un po’ troppo, comunque assai di più di quanto spetti alla politica per suo diritto. Prima di passare al commento di questi altri due contributi sul tema, però, mi è necessaria una precisazione riguardo a un termine che ho usato anche nel post qui sotto e che ha incontrato un’obiezione da parte di un lettore. Infatti ho parlato di «giudici» includendo nel termine sia i togati che nei tribunali amministrativi, civili e penali provvedono a far rispettare le leggi per come esse sono, sia quelli che siedono nella Consulta e che invece le sottopongono al vaglio di costituzionalità: espediente lessicale che intendeva mantenere la genericità di critica che Belardelli muoveva alla «giustizia», senza alcuna distinzione di funzione e di ruolo, per la sentenza della Corte costituzionale che dichiara lillegittimità di un decreto sulle pensioni, per quella di un Tribunale penale che ordina la chiusura di una fabbrica responsabile di danni ambientali e alla salute dei cittadini, per quella con la quale un Tar solleva eccezione alla sospensione di un sindaco. Per quello che sarà necessario al commento di ciò che scrivono Ferrarella e Berruti potrò risparmiarmi la «confusione» che ho ingenerato col parlare di «giudici», in senso conseguentemente lato: entrambi sembrano voler appuntare lattenzione in modo pressoché esclusivo sulla decisione della Consulta sul taglio delle indicizzazioni delle pensioni che era nel cosiddetto Salva-Italia del governo Monti, e a buon motivo, perché, da un lato, pretendere che la politica sia forte al punto da interferire con la giustizia sullapplicazione delle leggi era una «fluttuazione» francamente eccessiva (in ciò è da segnalare che larticolo di Ferrarella sembra voler riaggiustare il tiro di Belardelli) e, dallaltro, è il «buco» che Renzi viene a trovarsi in cassa a costituire un handicap oggettivo allautonomia delle decisioni politiche. Col rischio di apparire malizioso, la dozzina di miliardi di euro che dovrebbe andare ai pensionati azzera il millantato tesoretto col quale il premier intendeva issare un palo della cuccagna in vista delle elezioni regionali: quando a un premier che galleggia su una nuvoletta di chiacchiere togli la possibilità di raccattare consensi elargendo mance (vedi il caso degli ottanta euro alla vigilia delle scorse elezioni europee), allora sì che la politica – questo tipo di politica – oggettivamente si indebolisce. Così riaggiustato il tiro, la questione può avere anche una sua dignità, e dunque possiamo passare alla lettura di Ferrarella e di Berruti. Il primo, ammettendo implicitamente (non saprei dire se si tratti solo di un espediente retorico) che la Corte costituzionale si è limitata a difendere dei diritti, si chiede «quanti diritti ci possiamo permettere», «quale dose di giustizia può tollerare il nostro assetto sociale ed economico» e, col concedere che «fino a pochi anni fa una simile domanda sarebbe suonata bestemmia», sembra farci intendere che sono finiti i tempi in cui diritti e giustizia erano garantiti dalla Costituzione, perché oggi sarebbe più opportuno lasciar decidere allesecutivo quanto ne ce tocchino di volta in volta. «Cambiano infatti i casi, ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche»: in sostanza, con Berlusconi erano «ingerenze politiche», per giunta «grossolane», con Renzi è «pressione sociale». Suppongo, infatti, che in questi giorni abbiate visto le strade piene di gente incazzatissima per la sentenza della Corte costituzionale. No? Vabbè, sarà che affollava solo Via Solferino. Come il lettore mi auguro abbia inteso, non riconosco all’articolo di Ferrarella altro intento che ammorbidire la posizione di Belardelli, per sottrarre il Corriere della Sera all’accusa di aver virato troppo in fretta il giudizio sull’azione del governo, ieri guidato da un «caudillo maleducato» (De Bortoli) e oggi impedito nel fare «una determinata scelta di politica economica e sociale» (Belardelli). È quella che passa per moderazione. Di peso notevolmente maggiore è ciò che scrive Berruti in forma di lettera al direttore, e per «peso» intendo «grave», tanto più grave se si tiene conto che il mittente è presidente di una sezione della Cassazione, a indizio che anche tra i «giudici» (e qui rimando allaccezione cui facevo cenno prima) comincia ad esserci chi è sensibile alle ragioni di un esecutivo che, allindomani di una sentenza della Consulta che ripristina dei diritti violati, già si arrabatta a cercare il modo per aggirarla, lamentandosi intanto che quella sentenza «fa perdere credibilità al paese in sede internazionale» (Renzi). Berruti scrive: «Si può dire: ma la legge è legge, la Costituzione è nota e i governi debbono sapere i limiti dei possibili impegni. Risposta ipocrita. I governi operano nel presente economico e politico. Nellattimo, data la velocità dei mercati finanziari che richiedono risposte che operano sul piano della pura percezione. In realtà, il problema del contrasto tra la decisione giudiziaria, che opera su un dato di certezza giuridica e quindi di immutabilità delle posizioni a regole immutate, e la decisione politica che risponde alla relazione di forza, esiste». Sì, senza dubbio esiste, ma come andrebbe risolto? Non con mutare le regole caso per caso, voglio sperare, né col performarle in modo che al governo sia concesso di decidere un po come cazzo gli pare, sicuro che il principio di forza maggiore giustifichi la sospensione della norma scritta. No, possiamo tirare un sospiro di sollievo, neanche Berruti vuole questo, anzi, dice che lo «preoccupa uno scenario che affidasse al governo poteri decisivi e non ostacolabili». E allora? Quale sarebbe la soluzione? Non lo dice. Dice che la democrazia «sta cambiando» (e su questo siamo daccordo, basta constatare – per riprendere Ferrarella – che oggi si lavora a rendere tollerabile la «bestemmia»), e che dunque «è urgente una riflessione politica». Penserà mica a una Consulta i cui membri siano scelti tutti dal governo? Ci guadagneremmo solo in tanto shabadabadà.

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