«Il libro più sovversivo nel nostro tempo sarebbe una raccolta di vecchi proverbi», diceva quel genio di Nicolás Gómez Dávila (1913 – 1994) e penso avesse ragione. Mi è venuta infatti in mente la sovversione leggendo l’ultimo libro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, un libro che non tratta di proverbi ma di una cosa oggi considerata comunque molto, molto datata: la Tradizione. Talmente datata che i due autori individuano come suoi ultimi, veri custodi non i sacerdoti e neppure gli anziani in senso lato, bensì le vecchie zie, di qui il titolo dell’opera, Ci salveranno le vecchie zie (Fede&Cultura 2012, pp. 172).
Chi sarebbero le vecchie zie? Sono quelle signore, per dirla con Leo Longanesi (1905 – 1957), che al tema dedicò un’opera a cui quella di Gnocci e Palmaro direttamente s’ispira – Ci salveranno le vecchie zie? -, che non vanno mai al cinema, che escono poco se non per andare a Messa, e che, diffidando dell’equazione moderna ed ingenua nuovo uguale buono, conservano con totale fedeltà i principi, appunto, tradizionali, che poi sono quelli di sempre. Sono donne, le vecchie zie, che la pensano come una volta, che vivono come una volta e che, soprattutto, pregano come una volta. Vale a dire con fede sincera e pertanto in convinto abbandono a Dio. Sono le parenti che magari non vediamo molto, ma che non si dimenticano mai di noi.
Ed è per questo che quelle donne «ci salveranno», perché più che case, danari o altro, ci lasceranno in eredità un mondo, e soprattutto un modo di interpretare il mondo e il soprannaturale, che altrimenti rischiamo di perdere. E che Gnocchi e Palmaro tratteggiano sapientemente in questo bel libro dove, sulle ali di Guareschi, Tolkien e di Chesterton, vengono ricordati contenuti – etici, religiosi, perfino scolastici - che profumano di antico. Ma sono contenuti che meritano di essere conservati con cura. Non perché si tratti di reliquie, al contrario: si tratta di nutrimento vitale. Lo stesso che ha tenuto e tiene in vita le vecchie zie e che, fra non molto, toccherà a noi custodire: lo dobbiamo ai nostri figli e, ancor più, ai nostri nipoti.