Ci sarà un conflitto per impedire lo sviluppo nucleare dell’Iran?

Creato il 11 ottobre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Da quando, nel 2002, la comunità internazionale è venuta a conoscenza del programma nucleare iraniano, si è impegnata in un estenuante negoziato con Teheran per assicurarsi che tale programma fosse e rimanesse ad uso esclusivamente civile e non nascondesse finalità militari. L’Iran ha sempre sostenuto la natura pacifica delle sue attività nucleari, nel pieno rispetto degli accordi siglati nell’ambito del TNP (Trattato di non Proliferazione Nucleare). La stessa Guida Suprema Ali Khamenei ha ribadito che le armi nucleari sono immorali e contrarie ai precetti islamici. L’Iran si è, perciò, prima opposto alla presenza di osservatori stranieri dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) nei propri siti e poi una volta accettata, ne ha ostacolato le ispezioni, provocando la reazione della comunità internazionale e subendo pesanti sanzioni.

A novembre dell’anno scorso è stato pubblicato l’ultimo rapporto dell’IAEA, la quale si dichiarava “sempre più preoccupata” per “la possibile dimensione militare” del programma nucleare della Repubblica Islamica. Ad alimentare le preoccupazioni dell’Agenzia le notizie indicanti, già dal 2005, contatti tra il governo iraniano e reti clandestine che avrebbero fornito all’Iran il know-how necessario a potenziare le attività di conversione e arricchimento dell’uranio (già oltre la soglia critica del 20%).

Le reazioni internazionali evidenziano interessi contrastanti

Le reazioni internazionali sono state diverse. Tehran ha smentito le accuse, ribadendo le finalità civili delle ricerche in atto. La Russia ha criticato il rapporto sostenendo che non conteneva elementi nuovi e che veniva usato per minare gli sforzi diplomatici per risolvere la situazione di stallo tra Teheran e le potenze mondiali. «Sulla base delle nostre valutazioni iniziali, non ci sono elementi fondamentali nuovi nel documento», affermava il governo russo, aggiungendo che gli autori del rapporto «giocano con le informazioni allo scopo di creare l’impressione che ci sia una presunta componente militare nel programma nucleare iraniano». «Un tale approccio può difficilmente essere considerato professionale e obiettivo. È politicizzato», insinuava Mosca.

Sull’altro fronte, la pubblicazione dell’ultimo rapporto della IAEA ha ulteriormente alimentato le tensioni tra Israele e l’Iran. Le ostilità tra i due Paesi risalgono al 1979. Con il Trattato di Camp David, il quadro strategico della sicurezza di Israele ha iniziato a cambiare: la percezione di una minaccia esistenziale allo Stato israeliano si è gradualmente spostata dal fronte arabo a quello guidato dall’Iran. Mentre Fatah, il partito laico-nazionalista oggi capeggiato da Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità nazionale palestinese (ANP), e i paesi arabi “moderati” diventavano interlocutori di un processo politico che non si è poi realizzato, Teheran, il Partito di Dio in Libano, la Siria e Hamas si sono fatti carico della lotta per l’eliminazione dello Stato israeliano. Davanti al concretizzarsi della minaccia di un Iran dotato di bomba atomica, Israele ha invocato più e più volte un intervento militare contro i siti nucleari iraniani. L’uso della forza non è, del resto, fatto nuovo per Israele in circostanze similari. Già nel 1981 Israele, desideroso di mantenere la propria supremazia militare nella regione, arrivò a bombardare e distruggere il reattore nucleare iracheno di Osirak. Nel 2007 Israele distrusse il sito di Al-Kibar dove la Siria, con l’aiuto della Corea del Nord, stava segretamente costruendo un reattore nucleare. Netanyhau ha cercato in questa sua determinazione all’uso della forza l’appoggio dell’alleato di sempre: gli Stati Uniti, i quali, non accettando l’ipotesi di un attacco, hanno invece sostenuto la necessità di più forti e incisive sanzioni che costringessero l’Iran ad atteggiamenti collaborativi, abbandonando ogni velleità di dotarsi di armi nucleari. Francia e Gran Bretagna hanno appoggiato la posizione degli Stati Uniti.

Il nuovo corso della politica del governo Obama e la Primavera Araba

Ad un’analisi del governo del Presidente Obama, non può sfuggire il diverso orientamento dato alla politica internazionale, soprattutto medio-orientale, e la diversa disponibilità degli Stati Uniti a sostenere Israele incondizionatamente. Ecco che, se gi USA sono disposti a sostenere gli interessi di Israele minacciando il ritiro dei fondi destinati all’UNESCO che vuole riconoscere la Palestina, non è altrettanto disponibile a impegnarsi in un nuovo conflitto bellico attaccando l’Iran. Attacco che, sotto l’amministrazione Obama, non trova più giustificazione nella formula dell’“attacco preventivo”, sorta di “legittima difesa” coniata da Bush per dare un manto di legittimità alle invasioni in Iraq e Afghanistan. Barack Obama ha preso le distanze dalla dottrina di George Bush. Niente più “islamo-fascismo”, «con noi o contro di noi», dando vita a un nuovo tentativo, più complicato ma virtuoso, di mantenere la leadership mondiale non determinando i mutamenti né opponendosi a quelli degli altri, ma adattandovisi. Fin dal suo insediamento, infatti, Obama ha cercato di dare un’immagine diversa agli Stati Uniti, limitando gli interventi diretti, soprattutto in un contesto che ha mal sopportato la costante presenza e l’arroganza delle armi a stelle e strisce. In questo quadro s’inserisce il ritiro delle truppe dall’Iraq, il progressivo disimpegno in Afghanistan, e la politica adottata nei confronti dei Paesi travolti dalla primavera araba.

Gli eventi della primavera araba non sono stati ispirati dagli Stati Uniti o da altri attori esterni, ma sono stati la manifestazione dell’esplodere di diverse criticità interne, dall’alto tasso di disoccupazione giovanile, che non ha più trovato una valvola di sfogo in un’Europa in fase recessiva, al perdurare di regimi dittatoriali e antidemocratici e al dilagare di una corruzione diffusa ormai insostenibile. La scelta degli Stati Uniti di non intervenire direttamente nei moti della primavera araba, offrendo invece, armi agli oppositori dei regimi dittatoriali, sostegno economico e appoggio nelle sedi internazionali ai gruppi pro-democratici, ha permesso ad Obama di mantenere, almeno in parte, le promesse di libertà e autodeterminazione fatte ai giovani egiziani nel suo famoso discorso al Cairo del 2009, in cui manifestò il suo desiderio di apertura verso il Medio Oriente e il mondo islamico. Così, il ruolo dell’amministrazione statunitense durante la rivoluzione del 25 gennaio in Egitto è stato trasformista, non una politica già preordinata, ma una politica che si adatta alle situazioni in divenire. Gli Usa hanno sostenuto Mubarak finché possibile, esercitando pressioni affinché una transizione progressiva fosse guidata da Suleiman e quindi dall’esercito, naturale interlocutore statunitense. Al contempo, hanno saputo mantenere aperti i canali di comunicazione con le principali forze in campo – compresi i Fratelli Musulmani – anche grazie a tutta una serie di ONG che già da alcuni anni operavano nel tessuto della società civile egiziana e nei gruppi di opposizione al regime. In Libia l’aiuto militare e logistico nordamericano ha permesso l’intervento NATO che ha portato alla fine di Muammar Gheddafi. Contemporaneamente, la decisione di lasciare gli europei al comando delle operazioni ha evitato che gli Stati Uniti attirassero su di loro troppe attenzioni in una regione stanca della presenza del loro esercito.

Il caso Siria

La Siria è probabilmente il contesto più complesso, anche a causa degli stretti legami con la Russia, che più volte – insieme alla Cina – ha posto il veto all’adozione di sanzioni a livello globale contro il regime di Assad. Così, sanzioni economiche e un embargo sull’importazione di petrolio siriano sono stati decisi dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, mentre la Turchia e la Lega Araba hanno introdotto una serie di sanzioni bilaterali. Quello che era riuscito a Obama con Medvedev – la non applicazione del veto russo all’intervento in Libia – non si è ottenuto con Putin nei confronti della Siria. Putin è stato categorico nel rifiutare qualunque intervento contro un governo che ancora gode del sostegno di parte del suo popolo, opponendosi a quella che considera la tendenza dei Paesi occidentali a promuovere e attuare l’uso della forza per gestire conflitti interni agli Stati e in particolare quelli tra regimi al potere e gruppi di opposizione armata. Oltre ai rapporti con Cina e Russia, vi sono altri aspetti che rendono particolarmente delicato il contesto siriano. Un eventuale crollo del regime di Assad potrebbe comportare sulla carta alcuni vantaggi strategici per gli Usa, ma gli effetti sul piano interno e su quello internazionale non sono facilmente prevedibili. Per questo gli USA si sono limitati a un sostegno cauto e misurato all’opposizione siriana. Mentre da una parte il crollo del regime di Assad eliminerebbe il principale alleato dell’Iran in Medioriente, indebolendo la posizione iraniana nella regione e riducendo la capacità di Teheran di sostenere Hezbollah nel Libano attraverso il territorio siriano, dall’altra un conflitto prolungato in Siria potrebbe destabilizzare l’intera regione. C’è totale incertezza su chi potrebbe assumere il potere dopo la caduta di Assad e il rischio di un vuoto di potere e di una conseguente frammentazione del paese è al centro delle preoccupazioni principali degli Usa e dei suoi alleati.

“La lunga estate calda”

In estate la crisi iraniana ha avuto un’accelerazione, dopo il sostanziale fallimento dell’incontro di maggio a Baghdad del P5+1 con l’Iran, nel quale era emersa una nuova disponibilità di Teheran verso gli ispettori. Davanti all’intensificarsi delle minacce di attacco israeliane, Teheran rispondeva minacciando, a sua volta, di chiudere lo stretto di Hormuz, passaggio chiave del commercio di oro nero. La reazione statunitense si è sviluppata su più piani: il primo riguarda le sanzioni extra-territoriali che gli Stati Uniti possono imporre ad operatori finanziari ed aziende che realizzano transazioni commerciali con la Banca nazionale iraniana, passaggio obbligato nel commercio del petrolio iraniano. Il secondo piano è diplomatico e mira a convincere i maggiori compratori di petrolio iraniano, fra i quali Giappone, Corea del Sud, Cina ed India, a ridurre le proprie importazioni, magari dirottandole verso l’Arabia Saudita, alleato degli Stati Uniti, ma soprattutto nemico dell’Iran. Riad, infatti, sta aumentando la propria produzione di greggio per sostenere la maggior domanda, conseguenza dell’eventuale venir meno del petrolio iraniano in caso di scontri, e per attenuare l’effetto negativo che ciò avrebbe sul prezzo del petrolio. Infine, il terzo piano è affidato all’Unione europea ed al divieto imposto alle compagnie assicurative di fornire polizze alle petroliere in direzione e partenza dall’Iran. Mentre le sanzioni producono i loro effetti, Washington mostra i muscoli inviando la propria flotta nel Golfo, a dimostrazione che non permetterà mai all’Iran di bloccare Hormuz.

Le ragioni di Obama risiedono nella volontà di adottare forme di deterrenza verso l’Iran, senza però impegnare gli USA in un nuovo conflitto che i nordamericani non vogliono né possono permettersi, stante l’attuale crisi economica. Allo stesso tempo la concentrazione di navi nel Golfo serve a rassicurare l’alleato Netanyahu e le lobby ebraiche che presto saranno chiamate a scegliere il nuovo Presidente nordamericano. Netanyahu non sembra essere soddisfatto della risposta USA. Israele è convinto dell’inefficacia delle sanzioni e sa bene che un attacco non definitivo sarebbe egualmente inutile. I siti chiave del programma nucleare iraniano visibili sulla cartina geografica sono quattro, nella parte centro-nord del Paese: due nella regione d’Isfahan – Natanz e Isfahan – e altri due – Qom e Arak – più vicini alla capitale Teheran. Ma le fonti in possesso dell’intelligence israeliana e nordamericana rilevano la presenza di altri impianti costruiti nel sottosuolo, a più di 20 metri di profondità, i quali non potrebbero essere distrutti dalle sole armi israeliane. Israele ha bisogno degli Stati Uniti, come sottolineato anche da un recente rapporto redatto da ex ufficiali dell’esercito e della guardia nazionale statunitense, nonché da ufficiali del precedente governo USA, nel quale si afferma che, affinché l’attacco possa avere l’esito sperato, sarebbe necessario un impegno ben superiore a quello delle guerre in Iraq e Afghanistan. Ecco perché Netanyahu si è di recente rivolto direttamente al popolo – e all’elettorato – nordamericano, partecipando alla trasmissione della NBC “Meet the Press”, durante la quale ha duramente stigmatizzato il rifiuto di Obama di porre una “red line” all’Iran, oltre la quale scatterebbe l’uso delle armi. Netanyahu non ha esitato a cavalcare l’onda emotiva dei recentissimi fatti avvenuti l’11 settembre in Libia e costati la vita all’ambasciatore statunitense e ad altri 3 uomini, sottolineando che quello stesso estremismo violento e folle guiderebbe l’Iran.

Appare, tuttavia, alquanto stridente la contraddizione rappresentata da Israele, un Paese unico detentore della bomba atomica nell’area medio-orientale, che non ha sottoscritto il trattato di non proliferazione delle armi atomiche e che non ha mai accettato il controllo dell’AIEA, che però si arroga il diritto di promuovere una guerra contro l’Iran. Altro aspetto che non può sfuggire della politica israeliana è come l’attenzione data da Netanyahu alla minaccia nucleare iraniana abbia ottenuto l’effetto di adombrare la ripresa dell’ampliamento delle colonie su territori sottratti illegalmente ai palestinesi. È utile ricordare che appena tre anni fa Obama aveva fortemente criticato Netanyahu proprio per questo. Un’eventuale adesione degli Stati Uniti alla guerra contro l’Iran restituirebbe all’estremismo islamico l’immagine dell’odiato nemico di sempre, favorendo l’aggregazione delle frange islamiche più violente, a discapito di quella possibilità di dialogo che Obama ha cercato. Del resto in questa chiave di lettura si comprendono anche gli avvenimenti degli ultimi giorni, scatenati dal film “Innocence of Muslims”, ai quali Obama ha risposto acquistando spazi televisivi per esprimere, insieme al segretario di Stato Clinton, la condanna netta degli Stati Uniti di quel vergognoso filmato. Indubbiamente ciò che rende la situazione più complessa è l’imminenza delle elezioni nordamericane. Questo potrebbe fortemente condizionare le scelte di Washington, accusata di essere stata troppo morbida verso l’Iran e di non difendere sufficientemente uno dei suoi più stretti alleati. Anche per questo Obama sempre più spesso dichiara che nessuna opzione – compreso l’uso delle armi – è esclusa, per garantire che l’Iran non diventi una potenza nucleare. Nel frattempo, Romney ha incontrato Netanyahu. Alcuni osservatori hanno sottolineato che Netanyahu potrebbe attaccare l’Iran proprio prima delle elezioni, forzando così la mano ad Obama. Tuttavia, attualmente questa linea politica non trova il pieno sostegno della opinione pubblica israeliana e, dagli ultimi sondaggi negli USA, la maggioranza del popolo nordamericano è assolutamente contraria a nuove guerre.

Alcune considerazioni

Ciò di cui si discute è fondamentalmente l’applicazione del diritto internazionale, ovvero un insieme di norme condivise, che mantengono il loro valore solo se applicate senza discriminazioni soggettive. In base a quale diritto si può impedire ad uno Stato sovrano di portare avanti la ricerca nucleare? Come possono potenze dotate di bombe nucleari imporre ad un altro Stato sovrano di non farlo perche ritenuto una minaccia? Parlando di minacce, è forse il caso di ricordare l’attacco preventivo degli Stati Uniti di Bush all’Iraq, giustificato da falsi rapporti dell’intelligence nordamericana circa la disponibilità di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa. In realtà l’area medio-orientale vede un forte squilibrio nelle forze in campo. Il fronte guidato dagli Stati Uniti e dal loro fedele alleato Israele già da tempo possiede l’atomica, così come il Pakistan e l’India, che sono allineati alle posizioni USA. Tra i Paesi nell’area, oppositori della politica nordamericana, l’Iran è sicuramente il punto di riferimento rimasto, ora che l’Iraq è stato occupato, l’Afghanistan è stato occupato, la Libia è stata travolta dalla primavera araba e la Siria vive un devastante conflitto interno. Sergio Romano aveva avanzato l’idea che un Iran dotato di armi nucleari potrebbe essere non una minaccia, ma un elemento di equilibrio. Avendo vissuto gli anni del confronto USA-URSS, la maggior garanzia di pace potrebbe risiedere nel non prevalere di un’unica forza sulle altre, ma, soprattutto, nell’applicazione del diritto. Quello stesso diritto internazionale il cui rispetto Israele ha spesso disatteso, proseguendo, a tutt’oggi, nella sua politica di colonizzazione delle terre sottratte al popolo Palestinese, nonostante le critiche di Obama e l’adozione di risoluzioni da parte dell’ONU e non esitando ad utilizzare lo strumento dell’attacco preventivo come forma di difesa, come nei casi citati in Iraq e Siria.


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