Ciak, si gira: morte di un bandito

Creato il 19 agosto 2010 da Casarrubea

Tempo scaduto. Fuori tutti (foto Carnemolla)

Alla memoria di Giovan Battista Aloe, 21 anni, da Cosenza, Armando Loddo, 22 anni, da Reggio Calabria, Sergio Mancini, 24 anni, da Roma, Pasquale Antonio Marcone, 27 anni, da Napoli, Gabriele Palandrano, 23 anni, da Ascoli Piceno, Carlo Antonio Pabusa, 23 anni, da Cagliari, Ilario Russo, 21 anni, da Caserta, carabinieri caduti nella strage di Bellolampo (Passo di Rigano, Palermo)  il 19 agosto 1949. Giovani dalle umili origini che, nell’adempimento del loro dovere, sono state vittime di un bandito il cui nome è rimasto scritto nella storia come il più atroce criminale politico di tutti i tempi: Salvatore Giuliano. Nella ricorrenza del 61° anniversario dell’eccidio.

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Nelle ultime settimane si è fatto un gran parlare, a proposito e a sproposito, dei giorni in cui il bandito Salvatore Giuliano, come narrano le fonti ufficiali, è trovato morto nel cortile di Castelvetrano (Trapani), la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950. La più misteriosa  nella biografia criminale di questo terrorista nero.

Se ne attribuiscono il merito, di fronte all’opinione pubblica mondiale, due valorosi combattenti della Patria: il colonnello dei CC., Ugo Luca e il suo braccio operativo, il capitano Antonio Perenze. Ma anche la mafia, specialmente quella dell’entroterra agricolo, rappresentata dai vecchi numi tutelari di Turiddu, assolve il suo compito. Fa sentire il suo peso specifico e dimostra la sua principale dote di sempre: la capacità di mediazione.

Al di sopra di tutto ci sono gli strateghi della comunicazione. Quelli che da sempre decidono come e cosa gli altri devono pensare, quale deve essere l’immaginario collettivo. Il capobanda di Montelepre è, infatti, da subito, assassino che uccide un carabiniere mentre opera il contrabbando del grano, il 2 settembre 1943 ed eroe dei poveri, un protetto dalla mafia e un perseguitato dalla legge, un santo e un diavolo.

La stampa dell’epoca lo fa passare per Robin Hood e per una specie di benefattore dell’umanità. Ma il ‘ picciotto dritto ‘ che non si lascia posare la mosca sul naso, ad appena 28 anni, ha sul groppone ben 411 omicidi ed eccidi, accertati ufficialmente. Le sue vittime sono inermi cittadini, possidenti presi sotto sequestro, poveri carabinieri ignari che fanno solo il loro dovere. Onesti lavoratori che hanno solo il torto di vederlo come manutengolo dei latifondisti, un loro killer prezzolato. Le sue vittime rivendicano giustizia e libertà, manifestano, come a Portella della Ginestra, la propria gioia per la festa dei lavoratori, in un’Italia appena uscita dal fascismo e dalle tragedie della guerra.

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La confusione e le reticenze, più o meno accademiche o giornalistiche, per non dire  le compiacenze nel deviare la corretta interpretazione di ciò che rappresenta questo capobanda, scatenano le solite cortine fumogene. Impediscono all’opinione pubblica di farsi un’idea corretta del vero problema. Cioè il rapporto indissolubile tra criminalità organizzata egemonizzata dalla mafia, membri del governo e del sottogoverno del democristiano Alcide De Gasperi, i Servizi segreti. americani e italiani. Ne sono insigni referenti, ad esempio, il capo della polizia Luigi Ferrari,  l’ispettore generale di Ps in Sicilia, Ettore Messana, i responsabili dei servizi di sicurezza Leone Santoro e Pompeo Agrifoglio. Noto, quest’ultimo, per avere firmato, nell’agosto ’45, il decreto di immunità garantita per trenta sabotatori della Decima Flottiglia Mas ricercati per crimini di guerra. In loro compagnia ci sono i fratelli Scalera, membri di spicco del fascismo del defunto regime, il capo del neofascismo armato Augusto Turati e altri. Il tutto sotto la protezione oculata di James Jesus Angleton (Ssu), e Philip J. Corso (Cic).

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Salvatore Giuliano, agosto 1947 (foto Chiaramonte)

Giuliano è un affare per molti. Anche oggi, dopo che, il cinque maggio scorso, sulla scorta di dieci anni di lavoro sul tema, abbiamo presentato al questore di Palermo dott. Marangoni, tramite il capo della Squadra omicidi, Carmine Mosca, un’istanza per la riapertura delle indagini sulla presunta morte del bandito monteleprino. Fatto che ha consentito finalmente l’apertura di un fascicolo per l’acquisizione di notizie, da parte del PM, Francesco del Bene (Procura di Palermo). La notizia è stata divulgata in esclusiva da Attilio Bolzoni con un servizio speciale su “Repubblica” nello scorso giugno. Ciò nonostante  molti adesso cantano vittoria per meriti acquisiti. Li avranno pure. Ma non ci pare corretto che alcuni di loro si nascondano dietro il paravento del segreto professionale per proteggere personaggi, ancora in vita, che a suo tempo, presero parte alle operazioni di intelligence italiana e statunitense per coprire un branco di stragisti.  C’è dunque omertà di casta, se non proprio complicità, in certi ambienti dell’informazione, che impedisce ancora oggi, forse più di prima, che gli italiani sappiano qual è stata la loro vera storia recente e quali misteri l’hanno resa inestricabile.

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Non sono questioni di lana caprina, queste. Giuliano, infatti, è un criminale paragonabile a quelli presenti sulla nostra penisola all’epoca dell’occupazione nazista. Prima serve  gli interessi di Kappler, Hass e del principe Valerio Pignatelli, poi è utilizzato contro “la canea rossa”, per contrastare la vandea comunista che si teme giunga a piazza San Pietro da un momento all’altro. Poi  ancora diventa una bomba a orologeria che bisogna saper disinnescare. Con competenze di alto livello. A questo servono le trattative che capobanda e Stato, travolti, ad un certo punto, dal comune interesse di celare la verità su quanto accaduto in Italia, nel retroscena, tra il 1943 e le stragi del 1947, avviano per anni, fino alla fatidica notte  di Castelvetrano. Molti episodi di questa  trattativa sono  spudoratamente epistolari. Nero su bianco. Al processo di Viterbo per le stragi di Portella della Ginestra e del 22 giugno 1947 (1950-1952) sono esibite  le seguenti lettere:

- Ciro Verdiani (Ispettore di Ps in Sicilia fino all’agosto ’49) a Nino Miceli (boss di Monreale): “Carissimo amico Ignazio”, 26 febbraio 1950;

- Verdiani a Giuliano: “Carissimo Salvatore”, 23 febbraio 1950;

- Gaspare Pisciotta (luogotenente di Giuliano) a Verdiani: 14 giugno 1950;

- Giuliano a Verdiani: “Caro commendatore” (due pagine), 18 febbraio 1950;

- Giuliano a Verdiani, lettera per “l’Egregio direttore” (due pagine);

-Giuliano a Verdiani, “Commendatore carissimo”, 23 febbraio 1950 (due pagine);

- Giuliano a un “Egregio signore”, due lettere di una pagina ciascuna.

Dall’avvocato Crisafulli (difensore di alcuni imputati) inoltre sono esibite altre missive:

- di Giuliano a Verdiani, ricevuta a Roma il 14 febbraio 1950 e intestata “Carissimo commendatore”;

- di Perenze a Pisciotta, intestata ‘Caro amico’ non datata ma scritta prima della morte di Giuliano, e firmata ‘Antonio’;

- di Perenze a Pisciotta, intestata ‘Mio caro amico’ non datata e firmata ‘Antonio’.

Sono attestati di amicizia, di un rapporto colloquiale, di un cercarsi a vicenda. In queste ultime il capitano dei CC. fa riferimento a un “amico di Roma” e a un “maestro” che egli, di fronte ai giudici, identifica col colonnello  dei CC. Ugo Luca (1). Questi non è né romano né “maestro” . Ma in simili scambi le parole sono allusive, i silenzi contano più delle parole. Il termine “maestro” si può meglio riferire a qualche convitato di pietra, o appartenente a qualche alta identità ultrasegreta, piuttosto che a un ufficiale dell’Arma. Aggiungiamo, per chi l’avesse dimenticato, che Verdiani incontra personalmente il bandito e l’antivigilia di Natale del 1949 cena con lui portandogli in dono una bottiglia di Marsala e un panettone fresco di forno.

- Alla corrispondenza bisogna aggiungere l’elenco dei viaggi effettuati, da Palermo a Roma e viceversa dall’inseparabile coppia mafiosa Ignazio Miceli – Domenico Albano (Borgetto) tra l’agosto del ’49 e il 5 luglio del ’50. Per quanto non sarebbe costato molta fatica provvedere a precisi accertamenti presso gli uffici della L.A.I., le linee aeree italiane, di tali spostamenti in quel periodo non si è mai saputo granché, tranne il fatto che comunque si effettuano. E’ evidente che, nei mesi che precedono la scena del cortile di Castelvetrano, si svolge una frenetica azione sotterranea che ha i suoi referenti nelle principali cosche mafiose della Sicilia occidentale e, attraverso di queste, in certi ambienti romani controllati dal Ministero dell’Interno. Verdiani ne è la punta più avanzata. E’ certo ancora che il governo non è estraneo all’intrigo essendo stato informato direttamente dall’ispettore, come egli stesso dichiara ai giudici.  Verdiani fa una brutta fine. E’ trovato morto a casa sua qualche tempo dopo la sua deposizione  del 26 luglio 1951 al processo di Viterbo.  Le fonti ufficiali parlano di suicidio. Ma è l’uomo dello Stato che conosce più di tutti il capobanda e il suo retroterra nazifascista. Fino al ’46 è stato questore di Roma ed è lui a firmare vari rapporti del maggio ’46 in cui si esplicitano le relazioni tra gli emissari della banda Giuliano a Roma e gli ambienti delle squadre armate neofasciste. E’ Verdiani che ci parla, in ultimo, del celebre “Zoppo”, quale “emissario della banda Giuliano” nella capitale.  E’ addentro alle segrete cose. Ecco perchè è prescelto, nella fase finale della trattativa (agosto 1949-maggio 1950), per definire le modalità vantaggiose per il bandito e per lo Stato di una soluzione ragionevole al cul-de-sac in cui tutti si sono infilati. Verdiani, dunque, rappresenta la prima, lunga fase del negoziato finale, dopo la tempesta dell’eccidio di Bellolampo (Palermo) avvenuto il 19 agosto 1949, quando un camion di militari dell’Arma salta per aria a causa di una mina collocata sullo stradale da un commando della banda. I vertici della triangolazione sono, oltre a Verdiani, il bandito e le mafie locali. Con il beneplacito del governo nazionale, da cui la “Nuova Organizzazione” dipende. A Verdiani segue Luca e a questi la “Nuova Organizzazione”. La sequenza è lineare.

Insomma, l’ispettore ha assolto egregiamente al suo compito. Il bandito/terrorista, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 1950, gli  invia una lettera all’indirizzo romano di via Benaco, 7, offrendogli un Memoriale sulle stragi della primavera 1947. Non è un’offerta spontanea e gratuita ma il frutto di un patto. Dopo circa due mesi, in cui Giuliano e Verdiani mettono insieme a punto il testo, scritto dal bandito sotto dettatura, la cosa è ormai fatta. Poco dopo (siamo quasi alla metà di maggio 1950), il procuratore Emanuele Pili riceve a Palermo il prezioso atto. E’ così intestato: “Agli egregi signori magistrati”. E’ il secondo Memoriale che Giuliano scrive. Il primo al procuratore non era piaciuto.

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Che cosa accade dopo ce lo racconta Verdiani in persona: “Nella seconda decade di maggio 1950, io informai del rapporto avuto con Giuliano la Direzione generale di Ps. Mi si disse di non occuparmi più della faccenda Giuliano per essere sopravvenuta una Nuova Organizzazione”. Quasi un anno è passato dalla nascita del Cfrb (Comando Forze Repressione Banditismo). Di quale “Nuova Organizzazione” parla quindi il vecchio ispettore? Evidentemente di una entità ultrasegreta e iperprotetta a livelli altissimi. Forse Verdiani ha detto una parola di troppo.

In ogni caso, la mafia, lo Stato e l’ombrello protettivo Usa esprimono un sistema organico che collauda un modello imperante fino ai nostri giorni. Il problema è questo: se, come ci dicono le carte americane e britanniche che abbiamo studiato negli ultimi dieci anni, il bandito di Montelepre è tutt’altra cosa da quanto ci è stato  raccontato dagli storici accademici e dai rotocalchi, è anche legittimo ritenere che le cose siano andate diversamente da come ci sono state descritte a proposito della sua presunta morte. Tutto lascia ritenere che si sia svolta una lunga ed estenuante trattativa a base di  incontri, lettere dalle formule allusive, pacche sulle spalle, ma anche colpi di lupara e mine anticarro. A cadere sono quelli dei muretti bassi. I poveri, i militari degli ultimi ranghi, i lavoratori inermi, donne, bambini e anziani. Con la loro morte denunciano vendette trasversali ed obiettivi più elevati. A cominciare dai rappresentanti dei partiti democratici di sinistra e persino della Democrazia cristiana o di qualche livello territoriale dello Stato. Ad esempio i vertici locali dello Forze dell’ordine.

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A novembre 1947 è ucciso il militare dei CC. Luigi Geronazzo, braccio destro di Messana.  Il messaggio è: – Chi ha orecchie per intendere, intenda. Il vecchio ispettore di Racalmuto, anche se destituito, è stato referente principale di Pisciotta, di Ferreri e  di altri criminali. Gaspare Pisciotta dice che anche Giuliano è un confidente di Messana. Nel caso di Geronazzo, dunque, il messaggio lanciato dal capobanda è diretto. Come in tempi a noi vicini l’assassinio di Salvo Lima, il plenipotenziario della Dc in Sicilia.

Nel febbraio 1948 cade l’avvocato Vincenzo Campo, membro autorevole della Dc e candidato alle elezioni politiche di quell’anno. A luglio  è la volta di Santo Fleres di Partinico, capomafia e personaggio di spicco del partito di De Gasperi. Giuliano va sicuro come un “trattore”. Segue a ruota l’uccisione dell’alcamese Leonardo Renda, compare del ministro Dc., Bernardo Mattarella. Nonostante questa sequenza di morte, lor signori non dànno segnali di aver capito la lezione, e Giuliano alza il tiro. E’ la strage di Bellolampo. Ha attorno a sè una gabbia di Faraday, qualcosa di grosso che lo protegge. Più forte della mafia e del potere politico. E’ il suo vero Memoriale dove sta scritta tutta la verità su fatti e persone coinvolte negli affari stragistici, e tutto ciò che accade da Kappler, nella Roma ancora occupata dai nazisti, fino ai Far, all’Eca, e alle Sam. Ne è testimone Pisciotta che ai giudici di Viterbo dice che i due Memoriali sono falsi, che il vero Memoriale è altrove.

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Da questo momento le cose cominciano a cambiare. Lo dimostra il silenzio che si avverte nell’aria. Come la quiete dopo la tempesta. Ora tacciono le armi e si fa posto alle discussioni da tavolino. Faccia a faccia. Mafia, banditi e polizia. Il 27 agosto 1949 Ugo Luca diventa capo del Cfrb. Ma Verdiani imperterrito non abbandona la scena. Anzi prosegue la sua azione di contatto con Giuliano fino al mese di maggio 1950. Forse qualcuno capisce che egli deve chiudere il primo tempo della trattativa con Giuliano. Può pure rimanere in Sicilia. Senza le sue conclusioni Luca non può operare. Il suo scopo è ottenere  la falsa auto-accusa di Turiddu, non la verità dei fatti.  E ci riesce da gran negoziatore qual è. Ma perchè il bandito avrebbe dovuto sottoscrivere le sue colpe? Era un megalomane, ma certo non un autolesionista! Quale contropartita ottiene  dall’ammissione sconcertante dei suoi delitti? Arriviamo così al cuore del problema. Ora il gioco è far salva la pelle in cambio della consegna del Memoriale. Quello autentico. A Viterbo i giudici impazziscono per cercare di venire a capo di queste carte. Ma non approdano a nulla. Qualcuno dice che sono state bruciate. Non può essere vero. Sono il salvacondotto che deve consentire a Giuliano di uscire dal vicolo cieco in cui si è infilato, tirandosi dietro, obtorto collo, anche lo Stato. I termini di questa missione devono prevedere l’incolumità fisica di Turiddu negli anni avvenire. Una sorta di immunità protettiva come quella di cui beneficiavano allora i collaboratori di giustizia dell’Fbi, negli Usa. Un’idea tutta americana. Come clamorosa è l’operazione dei “federali” di riacciuffare Pasquale ‘Pino’ Sciortino, il cognato di Giuliano, nel Texas, agli inizi degli anni Cinquanta, per ricondurlo in Italia, dove sconterà vent’anni di carcere. Nel Texas l’ex terrorista, rifugiatosi in America nel 1947, fa il sergente dell’Esercito americano, oltre a vari altri mestieri. Anche questo strano episodio potrebbe essere illuminante. Per capire appieno questa infinita saga criminale.

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Tra la metà di maggio e i primi di luglio del 1950, in Sicilia, il testimone passa al colonnello Luca. Ora bisogna allestire il set di questo film noir all’italiana, dove le ombre prevalgono sulle luci. E alla fine qualcuno trova sempre il cadavere scomparso. Ciascuno ha recitato la sua parte. Con risultati di lungo periodo più o meno vantaggiosi. In questo copione abbiamo incontrato vari personaggi: i sosia di Giuliano, i giornalisti, gli autori di un filmato, carabinieri, avvocaticchi, gente comune ignara, spie e uomini di governo. Alcuni si sono appena intravisti,  sul fosco scenario estivo di quella notte. E’ mancato forse solo il protagonista principale. Ma tant’è. Gli spettatori,  ovvero gli Italiani, come diceva Curzio Malaparte, sono un popolo che porta sempre  i pantaloni corti.

Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino


(1) Cfr. Seconda Corte di Appello di Roma, Cancelleria, Atti del processo 13/50, Esame di testimone con giuramento, teste Antonio Perenze, cartella 4, vol. V, n. 5, ff. 611 retro e 612.


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