Dedè è il nostro pasticcere di fiducia. Si, avete capito bene. Cinque figli, una moglie che ha una rivendita di pane nella capitale, una grande passione per la cucina e un lavoro sicuro da oltre dieci anni: quello di guardiano notturno presso il Convento dove alloggiamo. È stata Samanta a parlargli per prima e a intavolare con lui un discorso dedicato al cibo: chissà che nei prossimi giorni non ci prepari qualche sorpresa. Intanto posso dirvi, adesso che la tempesta è passata, che forse abbiamo risolto la situazione food. Ieri, dopo l’ennessima discussione con un’europea non proprio open mind (per noi Mrs Rottermaier), abbiamo mangiato qualcosa di diverso da riso bollito e patate: un ottimo pollo, della verdura cotta e anche un dolce.
Ieri mattina mi sono avventurata nei chioschi di fronte all’ospedale che vendono generi di prima necessità e che rappresentano l’unico luogo dove acquistare da bere e da mangiare nel giro di qualche chilometro. Mi sono fermata da tutti e a ognuno ho chiesto i prezzi dei prodotti in vendita (medesima gamma e medesimi costi): banane essiccate (buonissime), pane, uova, banane fresche, noccioline americane, qualche dolce molto semplice che però non ho avuto il coraggio di assaggiare e poi acqua, birra e bibite di vario tipo. Voi non potete immaginare la gioia che ho provato nell’acquistare qualcosa da mangiare. Banane, noccioline e due fresche bottiglie grandi di Coca Cola e Sprite oggi hanno fatto la differenza nella nostra piccola sala “relax” allestita vicino alla sala operatoria. Lo so, direte voi, visto il mio lavoro è inevitabile che io sia fissata con il cibo, ma vi assicuro che in questo caso non è così. TIA (This is Africa, direbbero nel film Diamanti di Sangue ambientato in Congo), lo sappiamo tutti e non ci sono pretese per mangiare come a casa. Ma ieri mattina il cibo è stato il simbolo che mi ha permesso di riappropriarmi della libertà, anche quella di “nutrirmi” di ciò voglio, e vi assicuro che, dopo una settimana non proprio gastronomicamente facile in cui non abbiamo potuto scegliere nulla, è stata una grande liberazione.
Trovare una bibita fresca e riuscire a comprarla senza perdere mezz’ora in una contrattazione (è successo ai ragazzi due sere fa mentre tornavano al monastero per delle birre e a me per delle semplici bottiglie di acqua), acquistare delle banane, aprire un rubinetto e veder scendere l’acqua, possono apparirvi cose scontate. Avete ragione, lo sono sicuramente in Europa, ma non lo sono qui. In questo posto dove i divieti sono più degli obblighi e dove le eterne discussioni per il 90 per cento dei casi non portano ad alcuna soluzione (purtroppo lo abbiamo constatato più volte sulla nostra pelle), tutto ciò che con la mente ci riporta alla “nostra quotidianità” ci fa sentire davvero fortunati. In Congo, per esempio, cari amici fotografi, non si può scattare senza un’autorizzazione. Te lo vietano e se si accorgono che qualcosa non va, ti fanno eliminare sotto i loro occhi le immagini che hai realizzato. Mi è successo due giorni fa quando con Gilberto siamo andati a pagare la fattura per liberare il piccolo Patrick tenuto in ostaggio in questa “prigione” chiamata ospedale. È successo a Thorsten che è stato bloccato un paio di volte sia dentro la struttura che nella strada di fronte. Sembra che qui tutto debba avere un’autorizzazione. Non so se sia un meccanismo burocratico dettato dal bisogno di acquisire soldi, o più semplicemente la volontà di lasciar andare le cose come stanno con una certa dose di lassismo perché tanto non c’è speranza che possano cambiare. Pare quasi che ci sia una dose di menefreghismo mista a rassegnazione nel modo di vivere di questo posto: tutti sono tranquilli, non conoscono la fretta in nessun campo, tanto meno sul lavoro. Vi faccio un esempio pratico: ieri durante le consuete viste di nuovi pazienti, Daniele ha parlato con un medico congolese per avere informazioni sulla normale routine del reparto di chirurgia dell’ospedale. Bene, i locali ci sono, gli specialisti anche, alcuni macchinari sono a disposizione, ma mancano i pazienti: ci hanno detto che si effettuano una media di due interventi al mese. Sapere perché? Perché costano all’incirca 600 dollari (devono pagare tutto, dalle garze alle operazioni stesse) e nessuno se li può permettere. Vi faccio un altro esempio: sabato scorso, durante il primo giorno di visita dei pazienti da operare, è stato visto un bambino che si chiama Destino e che ha una gamba in cui, a causa di un’ustione, il polpaccio e la coscia sono “incollati” insieme. Poiché è molto piccolo i nostri medici hanno chiesto di poter effettuare degli esami specifici prima di intervenire. Bene, ad oggi non è ancora stato fatto nulla poiché gli esami costano 70 dollari: i genitori del bambino non li hanno e la struttura ospedaliera non si sogna nemmeno lontanamente di accollarsi la spesa. Ma qualcuno se ne preoccupa? No. Lo faremo noi, o almeno ci proveremo. In tutto questo contrasto di burocrazia e menefreghismo che pare abbia contagiato i “piani alti” della società locale, la gente comune continua a essere la migliore. L’attesa silenziosa, la preoccupazione per i propri figli e la speranza che l’intervento chirurgico possa aiutarli a migliorare la propria vita (molti bambini hanno difficoltà a muovere gli arti a causa di cicatrici retrattili che impediscono i movimenti) restano il cuore pulsante delle nostre giornate. Non ci sono fortunatamente né cibo né ostacoli “diplomatici” che ci possano fermare. Ogni mattina la voglia di fare è più di quella del giorno prima, nonostante la stanchezza, la mancanza di ogni comfort e di minimi standard di igiene (nella cucina della mensa universitaria dove mangiamo ogni sera vive un’allegra e curiosa famiglia di topi: ormai siamo quasi diventati loro amici…). Ogni mattina, che potrebbe sembrare uguale alle altre per la routine dei lavori organizzati, è invece diversa. Ce ne accorgiamo subito, appena entrati in ospedale. Un sorriso, un buon giorno, un grazie ci riportano immediatamente in un’altra dimensione: quella umana che è più forte di ogni altra cosa.