“La Cina è vicina”. Quante volte abbiamo sentito questa frase? Quante volte ci siamo trovati a confrontarci in dibattiti sull’imminente discesa a valle dell’universo cinese nella sua nuova versione, quella da nuovo millennio? Quella che “scimmiotta il nostro mondo” e che ha imparato a copiare tutto da noi occidentali, per gettare le basi della propria rinascita dopo la scomparsa dell’utopia comunista? Quante volte abbiamo potuto notare l’affiorare di rigurgiti xenofobi verso quel mondo senza scrupoli, che senza pietà ha già cominciato a colonizzare il nostro orticello? Quante volte abbiamo provato un senso di smarrimento nell’apprendere che aziende cinesi aprivano i battenti qui in Italia, o nel pensare all’ormai famigerato credito che Pechino gode nei confronti di Washington?
La concezione è sempre la stessa, vedere come imminente una sorta di ondata melmosa che minaccia i nostri (dis)equilibri democratici e liberisti, presi dall’assurda idea che il concetto cinese di libero mercato sia ancor peggio del nostro, in una continua rincorsa verso il fondo, completamente incoscienti (se non a parole, a fatti) di averlo già raschiato.
In poche parole, su 34 canali, nella fascia oraria che va dalle 19.00 alle 22, sarà possibile trasmettere un massimo di 9 programmi d’intrattenimento frivolo, come reality e affini. Inoltre, ogni canale potrà trasmetterne un massimo di due alla settimana, e con una durata massima di 90 minuti a puntata. Il resto sarà occupato da “programmi che favoriscano lo sviluppo sociale e culturale del Paese”, come documentari e format d’informazione. La decisione è stata resa nota pochi giorni dopo la chiusura della sessione plenaria della 17sima commissione del Partito Comunista Cinese.
Un terreno minato, dove è stato ritenuto opportuno non addentrarsi più di tanto. Quei pochi, timidi approcci alla questione hanno comunque scelto il solito tono da buoni contro cattivi: «La Cina dichiara guerra ai canali satellitari: Pechino censura la tv. Da qualche tempo le trasmissioni straniere attirano i telespettatori in cerca di alternative. Ma da gennaio il controllo sarà più forte» (scrive Chen Xinxin su Globalyst.it). «Cina, la censura colpisce i programmi per giovani», scrive Elena Romanato su Millecanali.it. «La Cina impone meno programmi d’intrattenimento in Tv», è il lancio dell’ASCA.
Un uso diabolico della parola, per demonizzare l’evento: “Regime”, “Imposizione”, “Meno”, “Giro di vite”. Si pensi ad un “La Cina promuove i programmi educativi a scapito dei reality”, o “La Cina limita le trasmissioni diseducative”. Avrebbe avuto certamente un altro effetto. Un effetto, però, non voluto. L’argomento Cina viene sviscerato soltanto quando si parla di Tibet, o di mercato dei falsi, o di regime. Il significante, ossia la parola, comprime sempre il significato. Dunque, i programmi frivoli diventano i “programmi per giovani”, e la commissione di vigilanza su radio e televisione (quella che hanno tutti i paesi), che in Cina è la Sarft, diventa “il regime”. Insomma, l’accento è posto sulla solita censura del Partito Comunista Cinese che, attraverso la televisione, mira a controllare le coscienze.
Questo aspetto non è certo da escludere, c’è però da analizzare una piccola sfumatura: in Cina, stando così le cose, si subisce un controllo atto alla crescita e al significato di un percorso collettivo. In pratica, un cinese sa che non tutto è permesso in televisione, e sa anche il perché. Qui, invece, si subisce un controllo subdolo e inconsapevole. Un controllo della libertà. Un controllo attraverso la parola. Una strategia atta al rincoglionimento, dove son previsti sentieri, ma non prima di aver ottenuto pass per cancelli privati e sorvegliati da guardie. Per noi non è previsto alcun percorso, né libero, né controllato. Noi siamo soltanto sampietrini.
(Pubblicato su “Il Fondo – Magazine” del 7 novembre 2011)