Magazine Diario personale
Ho fatto un sogno: che il nuovo Cda RAI, nato sotto la paternità del governo dei loden, decideva, per una questione di “rigore e trasparenza”, di bandire nuovi concorsi per autori, attori, voci, orchestra, registi, costumisti, scenografi, compositori, Maestri. Un sogno, sì, perché appena messi gli occhi sul Mac, leggo che gli studi di Cinecittà saranno trasformati in centro commerciale. Un altro. Ho subito rivolto lo sguardo a Fellini, che di quegli studi aveva fatto la location dei suoi sogni e a Visconti, che lì girò “Bellissima” assieme alla Magnani. Nessuno ha mai mosso un dito perché questo nostro pezzo di storia diventasse una pubblica accademia delle arti come in Italia, di fatto, non ce ne sono. Una Pubblica Accademia che avrebbe dato lavoro e un po’ più di dignità agli “artisti”, sempre più difficili da reperire visto che sono stati soppiantati da gente che, Visconti, non l’ha nemmeno mai sentito nominare. Perché non c’è nessuna norma in questo ambito. E solo qui, in Italia. Le scuole di teatro, musica, cinema, trucco e scrittura, nascono dal nulla e sono promosse a scuole della Provincia o della Regione o del Comune, senza che ci sia nessun concorso di affidamento che preveda programmi, liste delle materie, docenti in gara e una graduatoria soggetta a verifiche. Per le sedi, idem. Per anni sedi pubbliche sono state assegnate in comodato d’uso a emeriti sconosciuti e senza che l’ente assegnatario proponesse un Bando pubblico e possibilmente chiaro. Tutto passava e passa sotto silenzio e magari in periodo pre o post elettorale. E la professione, muore. Ma tanto non ci meraviglia più niente, lo so, però certe cose è sempre meglio metterle in fila prima che ci lobotomizzino completamente e che qualcuno metta in faccia un’espressione di stupore di fronte a questo sfacelo.
Sono almeno trent’anni che gli “artisti” sopravvivono nel proprio pezzente mondo a partita iva e che il lavoro lo ottengono se stanno giro di Opzetek, il giro di Verdone, Giordana, Fandango, insomma, il giro giusto. Tanti anni fa ci riunivamo al sindacato per far sì che almeno ci fosse un “albo” dei professionisti, così come nel resto d’Europa. Tornata da un lungo periodo all’accademia d’arte teatrale di Amsterdam, sognavo che anche noi potessimo godere di un vero ufficio di collocamento, di sussidi di disoccupazione e di vantaggi fiscali. Stare in un “albo” avrebbe significato punteggio per i concorsi, paghe rigorosamente allineate e calcolate in base alle repliche fatte, ai contributi versati eccetera. Ma poiché è dalla fine degli anni settanta che l’Italia ha perso completamente la faccia, fottendosene anche di mantenere una parvenza di “rigore e trasparenza”, ci rassegnammo a lasciare il mondo come stava e a vagare per provini in attesa di un ruolo secondario o come generico.
Anche all’epoca del perbenismo DC le raccomandazioni fioccavano, ma contro l’assoluta capacità, la cultura, e il curriculum, anche la raccomandazione poteva poco. Si aveva rispetto per l’arte. Lo spettatore era educato a ben altro talento. Al sabato sera le luci brillavano per gli Show, ma a illuminare gli studi c’erano professionisti, non uno ma tanti, tutti, dagli ospiti ai cantanti, dai comici, Ave Ninchi, Paolo Panelli e Bice Valori, Aldo Fabrizi alle soubrette come Loretta Goggi, le gemelle Kessler, Raffaella Carrà. E l’orchestra, relegata oggi sul fondo della scena era fino a pochi anni fa al centro del palco, composta da nomi di compositori e musicisti che hanno fatto la musica italiana. La RAI aveva tre orchestre alle quali si accedeva solo per concorso, oggi è tutto affidato a capi struttura, tutto a chiamata. Allora che senso ha, oggi, che un giovane vada a studiare in Conservatorio?
Ognuno, prima, portava con sé un curriculum ricco di studi, palcoscenici, concorsi e un grosso carico di gratitudine figlia delle privazioni subite dalla guerra. Sono cresciuta, e forse per questo sono così disperatamente offesa, con una tivù dei ragazzi fatta da chi ha trainato la cultura del palcoscenico italiano e di tanta avanguardia: Mariano Rigillo, Paolo e Lucia Poli, Lina Wertmuller e quel capolavoro di Gianburrasca, Renato Rashel. Nei telefilm c’erano Tino Buazzelli, Luigi Vannucchi, Paola Pitagora, Tino Carraro, Giulio Brogi, Walter Maestosi, Regina Bianchi, Carla Gravina, Ugo Pagliai, Massimo Girotti, Rossella Falk, Paolo Ferrari, estromesso poi dal teatro e boicottato dal pubblico per anni, perché si era piegato a fare la pubblicità di un detersivo. La serie dei grandi classici erano tutti girati negli Studi, scritti da sceneggiatori e autori di spicco, gente che di quel mestiere campava e a buon diritto, e che si portava dietro scenografi, macchinisti, datori luci, tecnici del suono che erano mostri di esperienza. Manco a dire che erano flop, il risultato era un grandissimo successo di pubblico, alfabetizzazione e teatri di prosa pieni in cui tutti accorrevano a vedere la star della tivù. Il fatto è, che a differenza di oggi, prima di approdare agli studi De Paolis o Cinecittà, quegli attori avevano studiato nelle giuste scuole, poche, anzi solo tre, la Filodrammatica, la Paolo Grassi e la Silvio d’Amico e lavoravano in teatro affabulando il pubblico con Cechov e Pirandello, non erano tronisti o amanti del nuovo politico pinco pallino. Oggi, chiunque s’improvvisa attore, sceneggiatore, giornalista, autore e musicista, e il prodotto di qualità non c’è più. Viene tutto dato in outsourcing a grandi SpA e pagato fior di quattrini, tutto denaro pubblico. I conduttori, i cui testi sono redatti da schiere di “schiavetti” pagati in nero, sono strapagati, così come gli ospiti, sacrificando per l’ingordigia di uno la sopravvivenza di tanti altri. E quindi, gli studi di Cinecittà chiudono perché nessuno ha idea di come utilizzarli. Stanotte ho mente di fare un altro sogno, che certa gente, i nuovi fari della coscienza civile, demagoghi griffati e opinionisti star, decidano di fare la prossima trasmissione sacrificando un po’ dei proprio cachet per dare spazio a nuovi talenti scelti da una commissione di addetti ai lavori e tramite pubblico concorso.
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