Recensione del film ""SYNECDOCHE, NEW YORK" (di Angela Laugier)
Regia: Charlie Kaufman
Principali interpreti: Philip Seymour Hoffman, Samantha Morton, Michelle Williams, Catherine Keener, Emily Watson. – 124 minuti – USA 2008
Mi pare quasi obbligatorio premettere alcune osservazioni:
- la più dolorosa – E’ difficile sottrarsi all’impressione che se quell’immenso attore che è stato Philip Seymour Hoffmann non fosse morto, nel modo tragico che sappiamo, questo film, in Italia non sarebbe probabilmente mai arrivato (si tratta, infatti di un film del 2008, selezionato per il Festival di Cannes di quell’anno e successivamente presentato ad altre prestigiose manifestazioni internazionali. Qui se ne era persa ogni traccia!). Mi astengo, per rispetto a lui, da qualunque altro commento in merito;
- il titolo – Il curioso titolo fa riferimento alla sineddoche, ampiamente presente in letteratura e anche nel linguaggio parlato, cioè alla figura retorica o, per meglio dire, al “procedimento linguistico espressivo.. che consiste nel trasferimento di significato da una parola a un’altra in base a una relazione di contiguità intesa come maggiore o minore estensione, usando per es. il nome della parte per quello del tutto o viceversa (prora o vela per nave; vitello per pelle di vitello), il nome del genere per quello della specie o viceversa (mortali per uomini; felino per gatto), o anche un termine al singolare invece che al plurale o viceversa…” (traggo la citazione dal vocaborio Treccani);
- il luogo – Il film non è stato girato a New York, ma a Schenectady, una piccola città dello stato di Newyork, il cui nome, derivato dalla lingua mohawk (un linguaggio irochese), significa luogo al di là dei pini, che nella pronuncia inglese ricorda la pronuncia inglese di”sineddoche”. (Schenectady è anche il titolo di un altro film, che in italiano è diventato Come un tuono ).
Nel film è raccontata la storia di un regista teatrale, Caden Cotard, che dopo aver ottenuto un importante riconoscimento per il suo lavoro, ha in mente di allestire il suo prossimo spettacolo rappresentando se stesso e l’evolvere della sua vita infelice. Sta attraversando, infatti, un momento assai critico della propria esistenza: la moglie, pittrice, si è allontanata alla volta di Berlino, portando con sé l’amata figlioletta e provocandogli una sofferenza dolorosissima senza conforto possibile, il che gli preclude, di fatto, sereni e appaganti rapporti con altre donne, che pure non gli mancherebbero. Caden è poi da tempo molto preoccupato per se stesso e per le proprie condizioni di salute: vede con orrore che a poco a poco il suo corpo si deteriora, si sente malato ed è continuamente ossessionato dalla convinzione della propria morte imminente, né riceve le rassicurazioni che vorrebbe sentire dai medici che lo hanno in cura.
Nella sua decisione di diventare il principale personaggio del suo nuovo spettacolo è presente anche la speranza di ottenere, attraverso l’arte (il teatro), quelle risposte e quella verità che né la scienza né la vita riescono a fornirgli. L’idea che lo muove pone, però, alcuni problemi di difficilissima soluzione, intanto perché l’arte – verità richiede il continuo mutare degli interpreti che, dovendo rispecchiare fedelmente la vita del personaggio, ne devono seguire sia i mutamenti nel tempo sia l’estendersi delle relazioni interpersonali; e anche perché l’unica e definitiva risposta possibile non potrà che arrivare con la fine dello spettacolo e perciò con la morte del personaggio – autore, nel quale viene perciò in modo sineddotico rappresentata la verità della vita di tutti.
Tutto il film è, a mio avviso, una profonda riflessione sul non senso della vita e perciò sulla morte, incubo presente lungo tutte le due ore della pellicola, e concluso con l’agghiacciante e poetica scena finale della città di Schenectady priva di vita, come quei corpi che dappertutto giacciono sulle strade che furono, un tempo, lo scenario della loro esistenza. Presente anche, lungo tutto il film, il tema dell’arte, del suo significato e dei modi possibili della rappresentazione del reale, con ampie citazioni da Beckett, a Pirandello a Pinter e a molti altri autori del teatro contemporaneo. Una rappresentazione tutt’altro che semplice, recitata con grande intelligenza e grande cuore da Philip Seymor Hoffmann (Caden), sulla cui eccezionale e versatile bravura si regge quasi per intero un film alquanto arduo, che pur parlando più alla ragione che ai sentimenti dello spettatore, non manca di momenti capaci di suscitare emozioni profonde.
Angela Laugier
2906/1200/0900