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Cinema chiuso: "The congress" di Ari Folman

Creato il 29 luglio 2014 da Samuelesestieri

Reduce, con un po' di ritardo, dalla visione di "The Congress" di Ari Folman.
Si parte da un primo piano della algida e meravigliosa Robin Wright e sembra all'inizio di assistere a un film lontano, che mi faceva pensare a un'immagine vitrea se non addirittura congelata, ibernata in chissà quale zona dell'iperspazio cinematografico, forse quella di un A.I. contaminato da virus cronenberghiani. Eppure, già da pochi secondi dall'inizio del film, che vorrebbe essere opera sulla fine del corpo - come sua estrema, spettacolare mercificazione - e sul tramonto del cinema, s'inizia ad avere l'impressione di assistere a uno sguardo assertivo, che procede enunciando ogni sua deriva, estroflettendo didascalicamente qualsivoglia riflessione e finendo per banalizzarla.
Il pensiero sul virtuale, il passaggio al mondo animato tanto caro a Folman, si trasforma in una sua radicale standardizzazione: è un'opera certo affascinante ma estremamente coercitiva, che immagina solo aut aut, bianchi e neri privi di sfumature. Ciò di cui non tiene conto Folman non è solo la problematicità dei simulacri, ma l'enorme complessità di ogni singolo individuo, ridotto qui a ombra irrigidita, ad avatar narrativo e piatto.
Il mondo animato - l'affascinante oltre del film - è contrapposto a quello delle persone in carne e ossa, il virtuale al reale, ma viene da chiedersi: che senso ha parlare nel 2014 ancora con un linguaggio binario e schematico che tende a separare gli estremi, quando tutto, proprio tutto, mira alla convergenza? Non è "The Congress", pur con la sua potenza (derivativa) d'immaginario, un film sterile e paradossalmente vecchio e stantio? Folman costruisce immagini sulle tracce di un intero immaginario, da Magritte a Kubrick, da Ernst a Roger Rabbit, ma è incapace di trovare una via di fuga, di approfondire un suo personale discorso sull'immateriale senza cadere, inevitabilmente, nella sua stessa superficie.
Vorrebbe essere profondo ma è solo generico, immerge l'azione in dialoghi - minestroni pseudofilosofici - sulla vita, sulla morte, sulla libertà, che risultano posticci e fuori fuoco. Vorrebbe infine meravigliare ma porta tutto a saturazione, perfino ogni meccanismo citazionistico. E alla fine si ritorna sempre a "Blade Runner". Cinema di potenzialità non sfruttate, tanto ambizioso quanto altisonante, e non bastano le strepitose interpretazioni di Robin Writght e Harvey Keitel a salvarlo.

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