“Cinema e Buddismo” a Milano: pregi e difetti di una rassegna

Creato il 28 giugno 2011 da Milleorienti

Si intitola “Cinema e Buddismo” (ma la “H” di Buddhismo che fine ha fatto?) la rassegna che si tiene dal 29 giugno al 17 luglio alla Fondazione Cineteca Italiana di Milano. Il pregio dell’iniziativa è chiaro: presentare opere di registi sia orientali sia occidentali ispirate a una filosofia religiosa la cui influenza culturale è sempre più evidente a ogni latitudine. I 12 film presentati dalla rassegna milanese (di cui potete leggere il programma completo qui) aprono dunque una finestra su un mondo che il cinema indaga da tempo ma il grande pubblico conosce solo in parte.
E qui, però, finiscono i pregi della rassegna. Che presenta pure parecchi difetti, sia sul piano contenutistico sia su quello metodologico.
Risultano sorprendenti le assenze di alcuni importantissimi titoli del cinema buddhista. Se è certamente vero che ogni rassegna è di per sè arbitraria, è anche vero però che una rassegna come questa non potrebbe e non dovrebbe ignorare, per esempio, un capolavoro assoluto del cinema giapponese come Morte di un Maestro del Tè di Kei Kumai (1989, Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia) che è probabilmente il più bel film mai girato sullo Zen (qui sotto le immagini conclusive).
Oppure un grandissimo classico come Racconti della pallida luna d’agosto di Kenji Mizoguchi (1953).

Ma anche “tralasciando” questi classici, perché ignorare un piccolo film originale come La coppa di Khyentse Norbu (1999), che racconta con ironia la vita (e la passione per il calcio) di un gruppo di monaci buddhisti in Bhutan?
Venendo invece ai registi presenti nella rassegna milanese: per quale (modaiola) ragione ci sono addirittura quattro film (un terzo dell’intera rassegna!) di Kim Ki-Duk? Senza nulla togliere al regista coreano, per illustrare il suo rapporto con il buddhismo sarebbe stato sufficiente proiettare Primavera estate autunno inverno…e ancora primavera. E infine, perché ignorare del tutto l’opera di Akira Kurosawa? Mistero.
Si potrebbe poi aprire il capitolo delle scelte operate dalla rassegna in materia di registi occidentali (ovvero delle loro opere, non buddhiste ma ispirate al buddhismo). Perché dimenticare film dedicati alla spiritualità tibetana come Kundun di Martin Scorsese, Sette anni in Tibet di Jean-Jacques Annaud o Milarepa di Liliana Cavani? Altro mistero.
Infine, sul piano metodologico sarebbe stato molto utile dividere la rassegna in due sezioni diverse: “il Buddhismo visto dai registi orientali” e “il Buddhismo visto dai registi occidentali”. Un’analisi in parallelo avrebbe consentito di decodificare i linguaggi – ben diversi fra loro – che autori asiatici e autori occidentali utilizzano per rappresentare il Buddhismo.
Il programma della rassegna milanese si presenta così come un “di-tutto-un-po’ “  senza precisi criteri-guida. Un’occasione perduta a metà. Ma forse era pretendere troppo…


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