Recensione del film "FOXCATCHER – UNA STORIA AMERICANA" (di Angela Laugier)
Regia: Bennett Miller
Principali interpreti: Steve Carell, Channing Tatum, Mark Ruffalo, Vanessa Redgrave, Sienna Miller, Anthony Michael Hall, Guy Boyd, Stephanie Garvin, Tara Subkoff, Brett Rice, Roger Callard, Cindy Jackson, Lee Perkins, Richard E. Chapla Jr., Samara Lee, Dan Anders, Daniel Hilt, Laurie Mann – 134 min. – USA 2014.
Il film racconta un fatto di cronaca nera avvenuto in Pennsylvania nel 1996, ma il regista, per propria scelta, sposta quegli accadimenti sanguinosi nei mesi che seguirono le Olimpiadi di Seul del 1988*. Uno spaventoso crimine aveva turbato profondamente l’opinione pubblica, soprattutto per la notorietà delle persone che ne erano state coinvolte: John Du Pont, ricchissimo erede di una famiglia di industriali di origine francese, e i fratelli David e Mark Schultz, entrambi campioni olimpionici di lotta (wrestling) nel 1984.
John (Steve Carrell) era un uomo di mezza età, che, appassionato di quello sport, aveva investito, nonostante l’aperta disapprovazione della madre novantenne (Vanessa Redgrave), una parte cospicua dell’eredità di famiglia per ospitare in una struttura idonea i valorosi atleti candidati a vincere, sotto la sua guida, le Olimpiadi di Seul. Foxcatcher sarebbe stato il nome della loro squadra e anche quello del complesso edilizio che li avrebbe accolti nel verde della foresta intorno all’enorme villa padronale dei Du Pont: una palestra attrezzatissima e numerose ville confortevoli erano sorte allo scopo.
John aveva in mente un progetto complesso e ambizioso, proiezione della propria megalomania frustrata e del proprio bisogno di affermazione personale, che metteva in relazione le future medaglie alle Olimpiadi di Seul con una sua possibile carriera politica nella destra nazionalista del Partito repubblicano, quello degli uomini duri e puri, legati come lui (e come i “sani” e muscolosi giovanotti che egli allenava) ai valori veri delle tradizioni patriottiche. In questo modo, egli sarebbe finalmente uscito dall’ombra in cui l’aveva cacciato la sua prestigiosa famiglia, la quale, pur avendogli sempre assicurato agi e privilegi, non gli aveva, però, mai permesso di emergere, non riconoscendogli alcun merito o qualità. La sua conoscenza dei due fratelli David e Mark Schultz (rispettivamente interpretati da Mark Ruffalo e Channing Tatum) era avvenuta per sostanziare, con l’arrivo di due campioni, quel suo progetto: un appuntamento telefonico, un’offerta strabiliante di denaro e una sistemazione lussuosa avevano conquistato subito la fiducia incondizionata di Mark, che era un giovane molto fragile, di carattere cupo e di aspetto sgradevole, che poco si stimava. David, con la sua tenace e affettuosa pazienza, lo aveva aiutato a crescere umanamente prima ancora che atleticamente, ma non aveva alcuna intenzione di sistemarsi vicino a lui in quel villaggio: era un uomo equilibrato e solare, aveva una graziosa moglie e una tenera figlioletta, oltre a un lavoro sicuro, ciò che gli bastava per vivere serenamente, né intendeva diventare un professionista del wrestling, che avrebbe continuato a praticare come un semplice hobby nelle palestre un po’ squallide delle periferie urbane. La sua presenza a Foxcatcher gli si era imposta, però, poiché alla sua osservazione attenta non era sfuggita la metamorfosi profonda del fratello, a cui il sodalizio con John nuoceva visibilmente: era ingrassato oltre il limite consentito a un atleta, mentre il suo sguardo, sempre più torvo e sfuggente, nascondeva qualcosa.
John si stava rivelando, infatti, non solo un allenatore inadeguato per lui, ma anche un falso e inaffidabile amico: le differenze di reddito e di classe sociale stavano trasformando il debole Mark in uno schiavo quasi plagiato, che ora dipendeva completamente dalla volontà e dai vizi del suo guru cocainomane e alcolista, che stava mettendo a rischio non solo la sua forma atletica, ma, ciò che era più grave, l’equilibrio precario che sembrava aver finalmente raggiunto. Per stargli vicino, perciò, anche David aveva infine accettato di stabilirsi a Foxcatcher, insieme alla moglie e alla bambina. Sarebbe stato lui l’allenatore della squadra per Seul, nonostante le velleitarie pretese di John.
Nel tranquillo e sereno territorio della Pennsylvania, si erano dunque create le premesse del fatto tragico che costituisce la conclusione, a lungo preparata, di tutta la narrazione.
Il regista Bennet Miller, al suo terzo lungometraggio (il primo era stato nientemeno che il magnifico Truman Capote – A sangue freddo), indaga con impressionante limpidezza, che ricorda il suo passato di documentarista, gli aspetti più inquietanti e meno spiegabili del comportamento umano. Questa sua ultima fatica non è, infatti, né un film su uno sport povero e poco praticato, né un’inchiesta sulle differenze sociali nella società americana, e neppure un’analisi psicologica sulle conseguenze delle carenze affettive nella formazione del carattere. Questi elementi, pur presenti nel film, costituiscono soltanto lo sfondo del racconto. L’interesse di Miller si concentra sul mistero inspiegabile della follia, così devastante da provocare negli uomini una regressione allo stato animale, che viene rappresentata, nei due personaggi di John e Mark, sia con la deformazione dei loro lineamenti ottenuta applicando un trucco così grottesco da renderli irriconoscibili, sia con le riprese insistenti del loro goffo camminare, conseguente alla violenza dura dello sport praticato. Il film segue il percorso della follia che da John si propaga lentamente a Mark, come una malattia contagiosa, e che a poco a poco lo rende disposto a rinunciare a se stesso, a lasciare che lunghi intervalli di silenzio sostituiscano la volontà di dire, di confrontarsi, magari di discutere, in una parola, di comunicare. Questo atteggiamento passivo lascia spazio sempre più vasto alla sopraffazione e all’arbitrio di John, il cui potere di ricatto economico è indiscutibilmente così grande da suscitare una sorta di inquietante fascinazione. Il racconto della follia è dunque il racconto del rapporto malsano fra un guru e l’adepto di una setta, ma è anche e soprattutto la metafora assai trasparente di ciò che era rimasto, alla fine degli anni ’80, del sogno americano, quando il reaganismo aveva permesso a gruppi ristretti di finti patrioti, ma di reali potentissimi paranoici, di decidere della vita e delle fortune di altri uomini, lusingandoli e blandendoli con la promessa di un edonismo alla portata di tutti, che attraeva soprattutto coloro che avrebbero dovuto essere i meno interessati a seguirli.
Film stupefacente e inquietante, cupo ma bellissimo, splendidamente interpretato dagli attori e premiato con la Palma assegnata alla migliore regia all’ultimo Festival di Cannes. Da non perdere!
* chi è interessato a leggere come andarono le cose nella realtà troverà QUI una risposta alla sua curiosità. Attenzione, però, se il film non si è ancora visto, poiché contiene ovviamente anche la rivelazione del finale.
Anhela Laugier
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