Il mito collettivistico della nostra produzione culturale e la risurrezione posticcia del nazional-popolare.
Segnalo il link a una recente intervista al regista Luca Guadagnino, pubblicata su «L’Espresso».
L’autore di Io sono l’amore (2009) ci restituisce un’acuta analisi dello stato di salute di quella fetta di cinema italiano che da tempo riesce a raggiungere quote accettabili di visibilità nelle sale di proiezione nazionali, e un certo riscontro di massa al botteghino.
Credo che l’analisi colga in pieno la penuria concettuale della nostra attuale produzione mainstream; che viene descritta quale una penuria di coscienza intellettuale, di urgenza di punti di vista poeticamente e criticamente “liberi” sulla realtà, prima e piuttosto che come una latitanza di virtù e risorse stilistico-formali.
Un fenomeno, il summenzionato, che investe a mio avviso, in primis, il grande pubblico, e il fantasma collettivistico che esso si è ritrovato a simbolizzare a livello della produzione culturale.
Con il risvolto non marginale che, nell’inseguimento ossessivo del suddetto fantasma (il grande pubblico) da parte dell’industria cinematografica e dei vari autori, l’arena e il palcoscenico ferini e carnascialeschi della “suburra” politico-mediatica degli ultimi vent’anni, berlusconiani e post-berlusconiani, da tempo hanno finito per tracimare e travolgerci.
Così, complici l’ossessione del nostro immaginario per le maschere caricaturali della commedia del boom (perpetuamente replicate in certa scena politica) e il fanatismo gravido di risentimento e di furori ideologici palingenetici della nuova temperie politico-nazionale di matrice grillina, abbiamo potuto verificare negli anni il consolidato seguito di produzioni filmiche “popolari”, espressamente e programmaticamente tese a restituirci la più prossima e agevole visibilità della nostra stessa carne sociale, con la forza assiomatica dello stereotipo, del bozzetto più o meno eroicomico, che facesse il verso alla commedia all’italiana, e del cliché populistico: dalle opere di Paolo Virzì [1] all’annunciato successo al botteghino dell’action-noir Suburra (2015) di Stefano Sollima, un lungometraggio piuttosto sintomatico sul bisogno assolutistico e purificatore di “giustizia” di una collettività descritta come inerme, e ontologicamente estranea a una classe dirigente di criminali [2].
E abbiamo vinto.
[2] Cfr. le mie notazioni sul film