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Cinema - "Padre e figlio" (Father and son) - di Angela Laugier

Creato il 13 aprile 2014 da Tafanus

FatherRecensione del film "FATHER AND SON" (di Angela Laugier)

Titolo inglese: Like father, like son

Regia: Hirokazu Koreeda

Principali interpreti: Masaharu Fukuyama, Yôko Maki, Jun Kunimura, Machiko Ono, Kirin Kiki, Isao Natsuyagi, Lily Franky, Jun Fubuki, Megumi Morisaki – 120 minuti – Giappone 2013
Nella vicenda che ci viene raccontata, ambientata nel Giappone di oggi, Ryota è un architetto e manager di successo, molto indaffarato; ha una moglie che lo ama e un figlio, Keita, di soli sei anni. Per curarne l’educazione, la giovane madre gli si dedica a tempo pieno, con tenerezza e costanza, cosicché il piccino cresce nella prospettiva di diventare a sua volta un uomo affermato e ammirato, come il suo papà: egli segue, sia pure senza troppo entusiasmo, le lezioni di piano, così come si impegna attivamente per superare l’ammissione alla speciale scuola creata per selezionare i bambini più bravi e promettenti, quelli che si affermeranno nella vita. Raggiunti alcuni traguardi indispensabili al futuro vagheggiato per lui, tutto nella piccola famiglia sembra procedere senza problemi, nella lussuosa e grande dimora in cui si svolge la vita di ciascuno, allorché, come un fulmine a ciel sereno, arriva la notizia che, per uno scambio in culla, avvenuto in ospedale, dopo il parto, il vero Keita vive ora presso un’ altra famiglia, che sta, a sua volta, facendo crescere un figlio non suo, col nome di Ryudi.

L’invito degli psicologi e degli operatori sociali incaricati di seguire i quattro genitori coinvolti in questo brutto pasticcio è di iniziare a frequentarsi con amicizia, ospitando i figli scambiati, per riportarli a casa nel modo più naturale e indolore possibile: di nuovo uno scambio, dunque, in nome dei diritti del sangue, condivisi, con una certa riluttanza, solo da Ryota, ma poco accettabili per le due madri che vorrebbero continuare la vita di prima, come se nulla fosse successo. Le due famiglie, fra le altre cose, non potrebbero essere più diverse: Yudai, l’altro padre, è un uomo buono, molto tollerante e per nulla ambizioso; gestisce un piccolo negozio di materiali elettrici e si ritaglia molto tempo libero da dedicare ai figli (sono altri due, oltre a Ryusei), con i quali gioca volentieri, coinvolgendone l’entusiasmo e la fantasia. La madre, in questo caso, contribuisce col proprio lavoro alle spese della casa, che è assai modesta e in disordine, perché porta le tracce della vitalità dei tre bambini, ancora piccoli. L’amicizia “necessaria” delle due famiglie non è tra le più facili, con la conseguenza che il soggiorno concordato dei rispettivi figlioletti nelle due abitazioni, dapprima accettato come un bel gioco, presenta problemi crescenti quanto più si prolungano i tempi della permanenza: Ryusei, infatti, non è affatto disponibile a impegnarsi per diventare un uomo di successo, ma è sufficientemente autonomo per fuggire, tornando nei luoghi dove era sempre vissuto; Keita, che pure si era molto divertito ed era stato conquistato dai bei giochi dei fratellini e dal volo degli aquiloni, sente, infine, la mancanza degli studi e persino del pianoforte, a cui vorrebbe tornare. Di tutti i personaggi, è proprio lui il più consapevole dell’inganno e il più dolente, quello che vive con indicibile sofferenza l’ingiustizia crudele che sta subendo senza colpe e alla quale non è in grado di opporre alcuna forma di ribellione. Ritrovare il padre, alla fine della separazione insensata e simbolicamente rappresentata nel bellissimo finale del film, sarà sufficiente a sanare la piaga profonda che potrebbe aver minato gravemente le sue sicurezze infantili?

Ancora un film sullo scambio dei neonati, dunque: è di un anno fa la mia recensione dell’interessante Il figlio dell’altra che utilizzava il tema, assai antico, per dimostrare l’assurdità del contrapporsi di Israeliani e Palestinesi.

In questo ottimo lavoro il regista giapponese Hirokazu Koreeda si cimenta con lo stesso soggetto, riflettendo, però, sul significato del diventare padre e sviluppando l’ipotesi che, al contrario della maternità che sarebbe soprattutto un legame naturale, in quanto biologico, fra la donna e il proprio figlio, la paternità sia un legame difficile da accettare essendo principalmente un’acquisizione culturale. Il film ci dice, tuttavia, che si diventa padre assai lentamente e spesso con difficoltà, soprattutto se le famiglie mantengono una divisione rigida dei compiti fra i due genitori, così come era avvenuto in passato, mentre è più facile diventare padri consapevoli in una famiglia organizzata in modo meno convenzionale e meno rigido nella distribuzione delle funzioni genitoriali. La pellicola è molto bella; la narrazione è pulita e priva di retorica, delicata e assai coinvolgente nel parlarci del lungo processo di maturazione di Ryota, che gli farà accettare con piena convinzione la paternità di Keita, anche se non non è fondata sui legami del sangue. Per essere padri quello che conta oggi è la disponibilità ad accogliere e a comprendere che i figli hanno bisogno, soprattutto, dell’amore, fatto di tempo insieme a loro, dedicato ad ascoltarne problemi ed esigenze, magari condividendone la gioia di veder volare gli aquiloni.

Angela Laugier


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