Inizia con l’immagine di un bosco innevato, Prisoners, il thriller di Denis Villeneuve. È però l’unica immagine di candore concessa agli spettatori, e finisce presto, quando il cervo, in lontananza, viene abbattuto.
La neve si sporca di sangue e da quel momento si fa ingresso in un mondo torbido. Durante il Giorno del Ringraziamento, mentre tutta l’America è in festa, in un paese della Pennsylvania due bambine di 6 e 7 anni scompaiono nel nulla. Nella disperazione delle famiglie, inizia una caccia all’uomo serrata e la trama prosegue in maniera abile fra piste che si rivelano essere strade morte, sospetti e misteri; si affacciano nuovi personaggi: un ragazzo afasico, un prete con un cadavere nello scantinato, un mitomane dall’aria morbosa. Chi ha rapito le bambine? Che ne è di loro?
Mentre lentamente si arriva alla verità, gli spettatori vengono trasportati in un viaggio nel sottosuolo dell’animo umano. In questo film, la violenza è come quei fiumi sotterranei che scorrono inesorabilmente sotto il terreno, nonostante per lunghi tratti non lascino alcuna traccia di sé. Insomma, la provincia non è poi così tranquilla come appare, anche se agghindata in maniera rassicurante per il Ringraziamento,e tutti i modi per esorcizzare il male e sentirci al sicuro sono solamente rimedi posticci, perché prima o poi la violenza irrompe. Scorre anche nelle vene dell’uomo, il quale deve fare i conti con essa per tutto il tempo della sua vita, eppure la rimuove continuamente.
E la violenza non è solo quella che si nasconde negli scantinati o sotto terra (questa volta in senso letterale), nelle case di provincia. È anche quella del padre di famiglia perfetto, almeno in apparenza, che cerca vendetta torturando un giovane forse implicato nel rapimento. Storie d’America e della coscienza di un paese che ammette ancora in alcune parti la pena di morte; ma io direi non soltanto, in tempi in cui la cronaca nera domina i palinsesti televisivi, giocando con il lato torbido degli uomini.