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cinema.italiano.nuovo. (?)

Creato il 26 gennaio 2011 da Albertogallo

le quattro volte

Reduce dalla visione, in evidente ritardo, di Io sono l’amore (interessante, manierista e sopravvalutato) di Luca Guadagnino, mi sono interrogato – esatto, non avevo niente di meglio da fare – sullo stato di salute del cinema italiano d’autore. Finita l’onda lunga dell’hype entusiasta per la doppietta di Cannes e relativo successo commerciale di Gomorra e Il Divo, tutti (o meglio: tutti i giornali generalisti, che di hype esclusivamente vivono – e non solo quando trattano di cinema) hanno smesso di parlare di quella che frettolosamente era stata definita la “rinascita del cinema italiano”.

“Rinascita del cinema italiano”. Tutte balle.

Per due motivi.

1) Il cinema italiano (come il rock e mille altre cose) non è mai morto. Ok, non siamo più negli anni Cinquanta-Sessanta, quando con Fellini, Antonioni, Petri, Germi, Rossellini, Visconti, Pasolini e compagnia il cinema italiano dettava legge un po’ in tutto il mondo. E non siamo più nemmeno nella generazione successiva dei Sessanta-Settanta, quando con Bertolucci, Argento e Leone i nostri film sbancavano i botteghini del vecchio e nuovo mondo. Ma il cinema italiano, comunque, è sempre stato importante e stimato anche negli anni Ottanta e Novanta. Vuoi grazie a Nanni Moretti, vuoi grazie ai fratelli Taviani o a fenomeni commerciali e a sprazzi anche artistici come Gabriele Salvatores o Giuseppe Tornatore, ma da noi la settima arte non è mai andata in pensione. Invecchiata sì, impoverita sicuramente, inattuale forse, morta no di certo.

2) Affidare a due-titoli-due la rinascita di quella che è (prima di tutto) un’industria e (poi) un’arte con una storia secolare alle spalle mi sembra un punto di vista quantomeno discutibile. Eppure.

sorrentino e garrone premiati a cannes

Eppure qualcosa è successo/sta succedendo. Partiamo pure da quei due film, Gomorra e Il Divo, opere della maturità di due registi sicuramente non nuovi alla creazione di pellicole interessanti. Paolo Sorrentino aveva già raggiunto una certa notorietà e ottime dosi di originalità d’autore qualche anno prima con due film, L’uomo in più (2001) e Le conseguenze dell’amore (2004), sempre spalleggiato, come anche nel Divo, dall’attore-feticcio Toni Servillo*. E anche Matteo Garrone, romano, aveva già fatto cose pregevoli con Estate romana (2000), L’imbalsamatore (2002) e Primo amore (2003)**. Ma questa entità indecifrabile chiamata critica non se n’era accorta, e ha dovuto aspettare i premi di Cannes (maggio 2008) per gridare al miracolo di un nuovo cinema italiano.

Lo stesso anno è stata la volta anche di Paolo Virzì con Tutta la vita davanti. Questo sì davvero un miracolo, dal momento che il regista toscano aveva fino a quel punto prodotto soltanto pellicole, come dire, così così, carine (alcune brutte, anzi), dimenticabili. Con Tutta la vita davanti, invece, storia attualissima e divertentissima e commoventissima ambientata in un call center, Virzì è riuscito, nel suo modo popolare e accattivante, a dipingere uno degli affreschi più veritieri e profondi del nostro Paese, tra arrivismo, povertà, volgarità, disprezzo della cultura e tirannia della televisione. Due anni dopo, cioè l’anno scorso, Virzì si è ripetuto con La prima cosa bella, storia forse meno urgente ma altrettanto toccante e riuscita di una mamma, i suoi due figli e le loro vicissitudini dagli anni Settanta ai giorni nostri, a Livorno. Entrambe le pellicole hanno ottenuto grandi riscontri di pubblico, e la seconda è stata scelta come rappresentante italiana nella corsa agli Oscar, non ottenendo però la nomination. Premiata, invece, ma al Festival di Torino, un’altra opera molto molto molto interessante, a metà strada tra fiction e documentario: si tratta di La bocca del lupo di Pietro Marcello (2009), film che illustra con trasporto e (com)passione la vita dei quartieri popolari di Genova, tra puttane, scaricatori di porto, criminali e travestiti. Esseri umani, insomma, descritti senza moralismi e senza ipocrisie. Se La bocca del lupo è stato l’unico film italiano mai premiato al TFF in quasi trent’anni un motivo ci sarà, no? E a metà strada tra fiction e documentario è anche un’altra opera recente, Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, ambientata nel mondo rurale e “antico” dei monti calabresi. Non ho visto questo film, ma mi sento di poterlo aggiungere a questa breve disamina sul nostro cinema recente per averne letto una recensione entusiastica sui Cahiers du cinema (dicembre 2010): “Se molti non mancheranno di vedere, in questo bell’esempio di cinema folk, una certa tendenza al manierismo – scrive Joachim Lepastier – noi preferiamo assaporare questa bella unione tra elegia e trivialità, tra le nostre anime di pastori e il partito preso delle cose che, dialogando, aprono a una discreta ma felice riconciliazione dell’arte colta con l’arte naïf”. Anche in Italia Le quattro volte ha ottenuto ottimi riscontri di critica, ma al cinema, purtroppo, s’è visto poco. Sempre sui monti, tra i pastori, ma questa volta centinaia di chilometri più a nord, nel Piemonte meridionale, si svolge Il vento fa il suo giro (2005), “caso” cinematografico più unico che raro (almeno nel nostro Paese) di pellicola partita senza alcuna promozione pubblicitaria e venuta lentamente a galla tra i cinefili grazie al passaparola. Personalmente ho sempre ritenuto questo film, diretto da Giorgio Diritti, abbastanza sopravvalutato, ma la sua originalità (quando mai si è visto, tra le altre cose, un film recitato interamente in dialetto occitano?) e la sua solida impronta autoriale sono innegabili. Quattro anni dopo, e con mezzi economici decisamente meno improvvisati, il regista si è ripetuto con lo straziante L’uomo che verrà, ambientato sui colli appenninici vicino a Bologna durante l’occupazione nazista (strage di Marzabotto). Anche qui lo stile è semplice, quasi dimesso, rurale, nel solco di una scuola olmiana vicina alla gente semplice vittima delle offese della storia e della socità (Ermanno Olmi è sicuramente una delle figure più influenti sul cinema italiano attuale).

giorgio diritti sul set di l'uomo che verrà

Ma ridurre il cinema nostrano del terzo millennio alle piccole storie di provincia, alle produzioni indipendenti e a tematiche di nicchia sarebbe un errore, dal momento che negli ultimi anni abbiamo assistito all’uscita di un buon numero di pellicole – sempre d’autore – ben più ricche, elaborate e potenzialmente appetibili per il grande pubblico. È il caso, ad esempio, di Vincere (2009), da molti considerato una delle vette del vecchio maestro Marco Bellocchio, sul tema della nascita del fascismo, o del recentissimo Noi credevamo (2010), di Mario Martone, che va ancora più indietro nel tempo e più in là con le ambizioni, riuscendo a dar vita a un avvincente e credibile affresco del Risorgimento italiano. Pellicole che soltanto a un’analisi superficiale potrebbero sembrare slegate dall’attualità politico-sociale del nostro Paese – Paese che del fascismo e del Risorgimento si porta ancora dietro la pesante eredità. Ma la denuncia del nostro cinema arriva anche a tempi più recenti e a temi ancora più drammatici per la loro perdurante influenza sul nostro sviluppo etico e culturale: è il caso di Fortapàsc, diretto nel 2009 da Marco Risi, sconvolgente ricostruzione (con un grande Libero De Rienzo) della carriera e della morte del giornalista napoletano Giancarlo Siani, ammazzato dalla camorra nel 1985. Ancora più incazzato e attuale, quasi un instant movie, il documentario di Sabina Guzzanti Draquila – L’Italia che trema, presentato con successo all’ultimo festival di Cannes, denuncia corrosiva e ferocemente ironica à la Michael Moore incentrata sulla ricostruzione del post terremoto in Abruzzo.

la bocca del lupo

Ed è così che il (nuovo?) cinema italiano ci riporta non a caso là dove avevamo cominciato, a Gomorra, alla mafia, compagna fedele e indesiderata della vita di ogni italiano, dopo un giro che ha attraversato Roma, il Piemonte, la Calabria, Napoli, l’Emilia, la Toscana e 150 anni di storia del nostro Paese. Un cinema che sa essere colto ma anche popolare, difficile e divertente, ironico e arrabbiato, urbano e rurale. Un cinema che attinge a espedienti narrativi anche molto diversi tra loro – il documentario, il “romanzo popolare”, l’inchiesta di denuncia, il dramma storico… – e capace, a volte, di incontrare i favori del pubblico senza scadere nella volgarità e senza sentirsi obbligato al confronto con quel grande fratello (ehm…) chiamato televisione, vero egemone, piaccia o no, della nostra vita culturale. Cosa manca? Perché, nonostante questi esempi virtuosi, il cinema italiano non riesce a essere ai livelli di un tempo? Mancano i soldi, ovviamente, e chi i soldi sappia metterli a frutto (vedi alla voce “produttore”). Manca un pubblico di massa, quel pubblico capace nei decenni scorsi di dare fiducia (e, di conseguenza, successo commerciale) anche a opere meno immediate, più intellettuali e riflessive. Manca il cinema di genere, cui l’Italia ha dato tantissimo negli anni Sessanta e Settanta (basti pensare all’horror o allo spaghetti western, celebrati in tutto il mondo e fonte di enormi ricchezze per il nostro cinema), oggi relegato nel dimenticatoio o affidato a produzioni di quart’ordine. Manca, in generale, una spinta culturale, politica e imprenditoriale capace di vedere nel cinema d’autore (così come nella musica, nel teatro ecc…) una possibilità per creare qualcosa di bello ed economicamente vantaggioso. Colpa di quel cinema di massa volutamente scadente e triviale, forse, che attira pubblico e investimenti. Colpa della televisione, probabilmente, complice di tutte le peggiori nefandezze del nostro Paese, e di chi l’ha voluta così.

Alberto Gallo

*Dall’alto dei suoi cinquant’anni suonati Servillo negli ultimi anni sembra essere diventato l’uomo nuovo del cinema italiano. Notevole, sempre in ottica di cinema d’autore, la sua partecipazione all’ottimo La ragazza del lago di Andrea Molaioli (già assistente alla regia di Moretti), grande successo di critica e pubblico nel 2007.
**Sempre nel 2008 Garrone ha prodotto un altro significativo caso cinematografico, Pranzo di ferragosto, diretto e interpretato da Gianni Di Gregorio, già co-sceneggiatore proprio di Gomorra.



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