Cinque perle nere che causano in chi le coglie emozione e immenso pathos. Sono le cinque canzoni che componogo il primo dei due capitoli di Angels of Darkness, Demons of Light (Southern Lord, 2011), nuovo magnum opus degli Earth, assurti con gli ultimi tre lavori alla carica di menestrelli della polverosa, cinematica, sempre più inquietante contemporaneità. Perché se vivere oggi è difficile, lo è ancora di più pensando al futuro. Da qui giunge la necessità di produrre musica non volendo parlare solo a se stessi, bensì al cuore di chi si pone all'ascolto. E medita sulla forza emotiva dei passaggi strumentali, sull'essenzialità delle linee tracciate dalla chitarra di Dylan Carlson, sulla complicità creata dalle ritmiche lente e pastose di Adrienne Davies (batteria) e Karl Blau (basso), sugli inserti di cello magici e al tempo stesso inquietanti di Lori Goldston.
Un album dalla purezza sconvolgente, di una linearità cristallina e tersa. Un disco che si pone come ideale prosecuzione del viaggio intrapreso a partire da Hex: or Printing in the Infernal Method (2005) e proseguito con sapienza e brillantezza in Hibernaculum (2007) e The Bees Made Honey in the Lion's Skull (2008). La prima parte di Angels of Darkness, Demons of Light è epitome e superamento critico di questa ricerca.
Inevitabile pensare a Jim Jarmusch, Johnny Depp e Neil Young che in Dead Man (1995) si incrociano sul finire dell'Ottocento nelle sinistre e desolate lande di Machine. Tuttavia qui c'è molto di più. Quello che è stato definito da più parti come minimalistic doom è in realtà psichedelia folk nel senso ampio del termine: chitarre rarefatte, tensioni acide che imbevono il cuore, sperimentalismo ultracorporeo, delle rovine rumorose dalle quali si emergere puntando verso una nuova transizione. È come una sposa che si spoglia delle distorsioni per regalarsi al piano di Lamonte Young. Dove cielo e inferno si sfiorano e si toccano. «Riff sciolti nel tempo», quanta verità.
Quando la linea di chitarra di Old Black diventa wah-wah è pura estasi. I passi notturni di Father Midnight sono rarefatti e cinematici; la stasi avvolgente di Descent to the Zenith scatena calde lacrime; i canyon che Hell's Winter materializza sono proiezioni mentali così vibranti da essere reali, concrete. I venti minuti conclusivi della title track sono il compendio paradisiaco di un gruppo che compone uno dei brani doom più naturali e antiteorici degli ultimi tempi.
Sono passati 20 anni da Extra-Capsular Extraction, 15 da Phase 3: Thrones and Dominions. E gli Earth compiono un ulteriore passo in avanti. Sempre più verso la perfezione.
Un disco che tutti gli amanti della buona musica e del buon cinema devono possedere nella propria collezione.
Per saperne di più: www.thronesanddominions.com
Photo credits: Sarah Barrick