Cinquant’anni di sacerdozio e di poesia
28 settembre 2015 di Augusto Benemeglio
echi e riverberi della parola: don Giuseppe Leopizzi
- Le nozze d’oro con Dio
Oggi, Lunedì dell’Angelo, al primo albore, mi sono messo in viaggio per Emmaus-Gallipoli, periferia dell’Impero, come ama dire Giuseppe Albahari. E avevo in cuore una musica strana, fatta di meraviglia e di stupore assoluto. E’ Chopin, – mi dicevo – ma sembra Bach in uno sbandamento emotivo, o Schubert, il genio della nostalgia. Ed io sono già affacciato sul balcone della casa di don Giuseppe Leopizzi, in via Cavalieri di Rodi, per ri-ascoltare gli “Echi e riverberi della parola”, scritti diversi raccolti nel tempo, ediz. Retrostampa, 2015. Guardo l’orizzonte che socchiude le sue palpebre e comincia a svelare il mistero della Risurrezione: é come se fosse la “prima alba a Gallipoli / (che) tinge le mura / di tenui veli / color melagrana “; sto dentro quest’alba ancora piena di notte, con “don Pippi”, mio indimenticato e illuminato amico dell’Uomo e il Mare, dell’Isola della Luce, dell’Isola e il Leone (ricordo bene i suoi foglietti di carta scritti a mano con quella sua calligrafia minuta, fitta fitta, piena di correzioni in rosso, e di volute come un capitello corinzio), e ripenso ai palchetti e agli ori ottocenteschi del “Teatro Garibaldi, con l’onorevole Foscarini rintanato nel suo cappottone grigio-soviet, un Sindaco tarato sul disincanto, ma onesto e vicino ai deboli e agli umili, talvolta perfino sorridente nella sua pessimistica malinconia; sto con lui nella sala poligonale del Castello Angioino (ma è Aragonese), con Luca Liguori che gli consegna l’ennesimo premio letterario; sto con questo prete e uomo straordinario, teologo, filosofo, saggista insigne, ma,soprattutto, poeta (per “enigma e necessità”, dirà lui) che celebra quest’anno i cinquant’anni di sacerdozio, le nozze d’oro con Dio.
- Il tempo della resa.
Forse il mondo ha cose più importanti da pensare, dirà qualcuno, ma io no. Voglio condividere quella sua idea di bellezza suprema, una bellezza in fuga, inseguita dalla vita, dalle macerie della nostra vita e il sentimento della compassione, merce scaduta, per le moltitudini che soffrono. Mettiamoci in ginocchio, dice lui, perché un uomo in ginocchio è più grande di un uomo in piedi. E’ vero. Questo è un giorno di stupore, di magia, di forza e canto, di musica perpetua, di brandelli di cielo perfetto. Staremo insieme tutto il giorno e tutta la notte, per tutto il tempo della resa: “arco breve di sofferenze, scenario ambiguo, dramma o buffonata, transito nudo e vuoto che è la vita, senza il grande abbraccio dell’Altro”. Cos’è la resa, caro don Pippi? “E’ forse inciampare e cadere nelle braccia dell’Altro, che è il miele dell’eternità”. Diceva don Tonino Bello che noi tutti abbiamo la responsabilità dello sguardo dell’Altro, di tutta quella gente segnata da una vita errabonda, sbandata, fallita, attraversata da un desiderio insopprimibile di rinascita, di dignità e di grazia, di un forte senso dell’incarnazione. Ma la resa è anche l’astrale candore del mare, quell’azzurra pianura d’attesa, quel deserto di sale su cui da cinquant’anni don Giuseppe Leopizzi passeggia e sogna, e prega. E in cui l’anima sua d’angelo pigro e malinconico caduto sulla terra diventa cosciente della solitudine senza scampo dell’Io, nel mondo e tra gli uomini. Forse anche l’Assoluto soffre di isolamento e non sempre il suo bacio trova lo spirito che dovrebbe accoglierlo. “L’altro e la resa” è un suo magistrale libro di poesie, edito da Manni nel 2003, in cui non canta o non scrive un verso che non sia la sua vita, la sua voglia di trascendenza, la vita evasa da una prigione di angosce quotidiane, tessere incendiarie nel mosaico della vita e delle sue meraviglie incancellabili. E’ uno di quei libri necessari che ha una sua vocalità, una sua musica, che squarcia qualcosa di alto e nobile, di divino, e non c’è sutura capace di far dimenticare quel meraviglioso choc che è la bellezza della poesia.
- Chi si ammala di Gesù non può guarire
Ma questo straordinario prete-poeta, riservato, schivo, di rara sapienza e umiltà, ma anche figlio di popolo, capace di satiriche strologate caddhipuline, da far epoca, è tuttavia capace di esplosioni di gioia, ridere e scherzare come un fanciullo. Lo ricordo al Villaggio Robinson, coi tedeschi che mescolavano schiuma di birra alle onde di risacca della riva di Ugento, o lungo i versanti di Castelforte, nella valle di Taviano, dove si ascoltavano le foglie vive, le vibrazioni e i timbri d’arpe in una remota purezza librata sulla vita del mondo, o nei bagliori serali delle Quattro Colonne che suggerivano un cielo diverso e univano anche il mare al “viso d’Iddio”. C’è sempre stata fra noi quella sintonia, quella consonanza, quell’intesa fluttuante di certi momenti di grazia che fa clic e scatta al momento giusto, quando ognuno si sente un po’ parte dell’altro, e si guarda in alto: “sillabario d’attese/ metà ombra/ metà luna, /finestra spalancata / sul prisma divino / di ogni libertà. Chi si ammala di Gesù non può più guarire”. Alla fine, – mi dice -, ci troveremo in quella zona di confine che sarà difficile attraversare, in cui non sarà bastato neppure consumarsi, logorarsi in nome di una purezza centrale. Tutto sarà stato vano, senza la fede. Dobbiamo continuare il cammino in questa eternità dell’ora?. Certo, non è facile essere un prete, siamo pieni di solitudine e dubbi, privi di carezze e del fuoco domestico. “Io non credo che un prete possa fermarsi a metà strada o alla superficie delle cose”, disse David Maria Turoldo, che don Pippi fece venire un giorno a Gallipoli (vi parlo di quasi quarant’anni fa), al teatro Garibaldi, questo grande frate poeta, gigantesco, più alto di lui (che non scherza col suo metro e novanta), con della mani alla Carnera (anche lui friulano), e quando le apriva faceva vento sui palchi barocchi del piccolo “San Carlo”: “In queste mani le cose o si sbriciolano o vanno in cenere, oppure si trasfigurano come l’ostia e diventano luminose, e tutta la terra si fa ostia”. Vedi, chi si ammala di Gesù non può guarire, mi dice, questo prete -poeta, vecchio fanciullo gigante di settantacinque anni, con mezzo secolo di sacerdozio alle spalle, sulle nude scogliere dei sensi, nel devastato giardino dei ricordi, con qualche gioia e tante rapine, con la paura che le ali dei gabbiani si frangano sugli abissi di Dio.
- Un solo verso può fare più grande l’Universo
Nei paesaggi dell’anima riascolto la sua parola poetica ormai sotterranea, stordita, distrutta dall’immane frastuono di un mondo che si droga con il rumore, un mondo in cui “tutto consuma tutto”. E sto con lui nello sperpero incontinente della musica e della parola, in silenzio, con la vertigine di pensieri e la gioia di riabbracciare questa terra e questo mare per tornare a quella divinità perduta, a quel Dio sempre in attesa, con le braccia aperte, che ci può restituire la luce del senso della nostra esistenza e il giusto nome agli eventi. Ma tutto è forse vanità, solo vanità; più tardi verrà la notte e sarà una mela oscura… sarà smarrimento, estasi e angoscia, concerti di dubbi e rapimenti finiti nel nulla. Sarà così, tutto come sempre, a che serve la poesia? Ecco le furiose e dolci ostinate fatiche dei poeti a inseguire ora il frinire d’un ala di cicala invisibile, ora gli scrosci di un uragano. Guardiamolo pure il mare, quel fantasma d’armonia che se ne va in fumo e nafta, ascoltiamo gli echi della sofferenza delle sue grida, la voce di specie per sempre estinte. Non esiste più quel “mare che ci sorrideva in lontananza, quel mare dai denti di spuma e labbra di cielo, né quella Gallipoli di quarant’anni fa, in cui don Pippi ama ancora perdersi: “Andirivieni di angeli e gabbiani / tra Sant’Angelo e la Purità /. Bello è perdersi ogni tanto/ nel labirinto / dell’antica identità”. Anche nella “città bella”, scoglio di poeti, tutto è stato omologato. Anche qui hanno assassinato la bellezza e la poesia e a nulla servono cortei di protesta, sit-in, immagini su Youtube e Facebook, impetrazioni a chissà chi. Ed ecco approssimarsi la fine di tutti i poeti di Gallipoli, dagli antichi aedi al Sindaco poeta Luigi Sansò – ma sollevando il calice al Signore, don Pippi fa risplendere il suo pianto nudo come “mendicante di stelle” e dice, “i poeti esisteranno sempre, un solo verso fessura sull’infinito come il costato aperto di Cristo, un solo verso può fare più grande l’universo”.
5.Ri-cominciare
Rifiorisce la speranza, l’attesa dell’Altro. “Come potrei altrimenti al mondo che delira offrire il pane del Verbo che sublima? ”Bisogna sempre ri-cominciare è porsi all’ascolto della voce, del respiro di Dio, che è ovunque, e s’ode come “Musica di roccia/ che al tramonto lieve s’effonde/ dalle rosee tastiere/ per le valli, nei boschi”. Ri-cominciare, dunque, con il “difficile spartito/ della musica di Dio/ che azzera montagne di ragionamenti/ affogando ragnatele / di nude parole d’uomo”. Ri-cominciare, cinquant’anni dopo, con la ” resa”, che è l’abbraccio della memoria, dei ricordi, del ritrovo del tempo, in cui passeggiavi sul lungomare Galilei, tra i vetri di mare, i licheni, i frammenti e le rovine, le brezze egli angeli tristi. Facevi chilometri e chilometri, a piedi, e tornavi a casa come una conchiglia piena di fede. E poi le tue omelie inconfondibili pagine di dottrina teologica, storia, filosofia e poesia, recitate sull’ambone dell’altare maggiore della cattedrale di Sant’Agata, nel recinto del coro di Aver, tra l’oro e la musica che fanno i colori delle grandi tele, vera e propria pinacoteca che racchiude tutta l’anima religiosa e barocca gallipolina. E mentre la tua anima lirica canta o prosegue il volo, il tuo piede destro ritma con discrezione il tempo. E quante volte ci siamo detti: ” Che peccato non registrarle quelle omelie dei vangeli della domenica, dalla speranza dell’Avvento alla festa del Cristo Re; che peccato che tutto questo patrimonio di intensità e tensione spirituale, queste splendide omelie che danno anche il senso del mutamento della storia, che ci arricchiscono e ci comunicano concetti importanti, essenziali, questa memoria di speranza, rimanga abbandonata, vada dispersa, duri solo quel breve tempo che dura una messa”. Ma forse è questo libro non scritto, di cinquant’anni di storia sacerdotale, questo libro chiaro, luminoso, forte, intenso, pieno di storia di fatti e idee, questo libro che segue passo per passo il calendario della liturgia cattolica, è il tuo vero capolavoro. E’ un libro unico e originale, un libro fatto d’aria, in cui le note della tua voce, le tue parole si depositano lievemente, come seme, lungo l’invisibile esistenza dell’idealità e dello spirito. Sono gli echi e riverberi della parola.