Sonia Caporossi, “Fosfeni lineari”, 2011
Di ANTONIO BUX
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È possibile deviare il percorso, fare un decorso
a retrocedere: perdersi prima della nascita; poiché
tutto nuota dentro, sproporzionato nel nucleo
un’onda diagonale (ché non taglia dal centro, anzi
schiuma solo ai lati, fa una pozzanghera nell’angolo)
perciò dell’acqua si ignora la lunghezza ma non la forma:
si conosce l’esatto frizzare della bolla, il gorgo a sorprendere
-del tuffo- il buco che rimpiazza. Dunque si fa come un lago
parlando: un discorso a specchio, dove quell’altro che muove
la superficie non pensa, tirando il sasso parola, non si tiene a galla
(quindi tutto è destinato ad affondare, ché riemerge solo una sponda
e non l’intera isola); sprofonda come una nave: con la morte in poppa.
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Esordiremo al di là. Non importa
se sarà la vanga o il piccone
del verso, ciò che inciderà
la traccia dell’abisso. Lì troverà
l’universo la sua precipitazione.
E del resto, ben poco si alzerà
dal fuoco incavo del mezzogiorno
e niente muoverà l’ombra del masso
neanche l’aria dal ventre mutando
il solco del prossimo sotto la terra;
ma più denso il cammino, guardando indietro:
un feretro di vetro per ogni sguardo rifletterà
la scritta fragile, l’indicibile interno, l’incudine
senza peso, dove galleggiando sprofonderà l’ago
del nostro vincolo. Ma noi non verremo a bucare
l’angolo più sicuro del giorno: ma piuttosto cuciremo
la morte ai suoi strappi, portandone la ferita sorridente
la condivisione del graffio, nella solitudine della difesa.
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Come può dirsi alba che senza
schiumare fa sponda alla notte?
Molto trattiene di luce nella piena
persistenza che tra i piccoli bui
poco si espande, non sfascia di nero
ma tende al sereno, di lì a più in là
quiete condivisa che poi torna indietro
e si placa in breve nella sua opposta
riva: è dunque niente il tragitto di morte
che se isola non batte, ristagna in mente
avanza verso un piede di futuro, trottando
a gambe levate precipita ferma, sebbene
sia spalla, suo precipizio d’immagine: l’altra
voragine che si porta accanto, oscura matassa
pur indicandosi nel suo principio, tende a liberare
mano piegata nella mano, dita che ascoltano
della vista lo scioglimento, il giorno fatto a strati:
ché tutto assorbe della pelle esposta al vento
vapore che per sola aria non forma di spore
la sua anca, ma di pura alcalina presenza;
stella che il corpo ricopre, protezione astrale
celeste bussare verso una porta già aperta:
qui entra dentro, perché altro non sa fare.
***
Fermenta il silenzio
come schiumando a capo
nel ventre del pensiero
si contorce in parole
l’umidità del verbo quando
camminando all’indietro
si restringe la muta
dell’essere a difesa.
***
Come dire la parola. Praticamente
un cerchio annodato alla gola.
Nel suono dell’immagine cancellando
il suo ritmo, il senso musicale
non il vortice, piuttosto il pergolato
dove l’aria ripara gli oggetti più inutili
-le ariose stanze della comunicazione-
quando il sole non rivolge che l’ombra
nell’angolo del respiro -il limitare oscuro-
sull’uscio nella casa del verbo. L’uscita
è dunque zittirsi, confondere la densità
del cervello mentre si apre nel dettaglio
del discorso, al movimento dell’intesa:
così quindi censurare le labbra pettegoli
perché il muro della lingua è la protezione
dall’infezione del mondo che si parla solo.