Magazine Società
Il controllo al quale è sottoposto un blogger non ha paragoni con la libertà di scrivere cazzate della quale residualmente gode un professionista della carta stampata. È la natura democratica del web che è intervenuta a fare la differenza, per ciò che oggi è pubblicato in rete ma anche sulla carta stampata, perché in rete il rapporto tra chi scrive una cazzata e chi la contesta è diventato diretto, talvolta immediato, spesso franco fino alla brutalità, e direttamente coinvolge chiunque l’abbia già letta, o proprio in seguito alla contestazione giunga a leggerla. Questo spiega perché una cazzata scritta sulla carta stampata tendesse ad essere dimenticata, quando ancora il web non esisteva, anche quando fosse stata validamente contestata sulla stessa carta stampata, e anche quando avesse dato vita a una querelle, anche notevole. In parte era perché gli archivi non erano così accessibili come Internet ha reso possibile, ma credo che la ragione sia soprattutto un’altra: tra quanti scrivevano e quanti leggevano esisteva un filtro che la blogosfera ha in gran parte rimosso, costringendo gli uni e gli altri a riqualificare i loro ruoli. È così venuta meno la rigidità che era imposta loro in passato, ibridizzando lettura e scrittura in dibattito, sottraendo a chi scrive, non importa dove, l’autorità che spesso gli era attribuita dal mero fatto di essere pubblicato, e conferendo a chi legge, non importa se un testo pubblicato esclusivamente in rete o su un giornale, il diritto di contestarne il contenuto e perfino la forma. Si tratta di una rivoluzione della quale già avvertiamo gli effetti e penso non sia esagerato porla accanto a quella che si ebbe passando dal testo manoscritto a quello stampato.
Devo confessare che quanto ho scritto finora voleva introdurre un mio commento a un titolo che oggi ho letto su il Giornale, a pag. 2: “Penati «graziato»: per un cavillo del gip sfugge alle manette”. Avrei voluto far finta di aver letto questo titolo su un blog, per abusare della brutalità che merita un blogger intellettualmente disonesto, e infatti avrei voluto rivelare che si trattava di un articolo scritto da un professionista della carta stampata solo a conclusione del post. Avrei contestato l’uso del termine graziato, anche se messo tra virgolette, ma soprattutto avrei contestato l’uso del termine cavillo per una prescrizione, che «grazia» gli avversari politici e manda «assolto» chi ti paga lo stipendio. L’intenzione era quella di un post non più lungo di dieci righe: tre di premessa, quattro o cinque di biasimo, due o tre di mesta riflessione su quanto letame sarebbe piovuto addosso a un blogger che avesse osato titolare un post a quel modo. E però mi sono fatto prendere la mano, e la premessa mi si è allungata quasi quanto una prefazione a chissà cosa e, mentre scrivevo, perdevo di vista il Giornale: la mente correva al trauma che hanno dovuto subire, in questi ultimi anni, quanti fino a ieri godevano di quell’autorità che spesso era loro attribuita dal fatto stesso di essere pubblicati.
Alcuni l’hanno presa bene, anzi, hanno in pieno raccolto la sfida che è sempre implicita nel voler essere autorevole, e che costa pazienza, onestà e umiltà. Per altri è stata una tragedia alla quale hanno reagito istericamente, per lo più da aristocratici che avessero sorpreso dei villani a stappare bottiglie nell’angolo più prezioso della loro cantina. Il trauma è stato tanto più doloroso per chi più aveva dell’autorevolezza di una firma su un pezzo di carta stampata un’idea già in gran parte obsoleta prima dell’avvento di Internet, e così abbiamo visto che le reazioni più scomposte venivano non già da quanti “facevano” le notizie, che anzi erano generalmente sollecitati a far meglio il loro mestiere, costretti a non poter più contar troppo sulla credulità dei lettori, ma da quanti “facevano” l’opinione. Tra questi ultimi, per motivi psicologici facilmente intuibili, i più risentiti sono stati gli ultimi arrivati a conquistare il pulpito cartaceo. La loro è stata la tragedia di chi aveva sempre reputato indiscutibile un’opinione che arriva ad essere stampata: incontestabile se non dai propri pari, cioè da chi potesse avere diversa opinione, ma la esprimesse da un altro pulpito cartaceo. Per costoro deve essere stato davvero duro fare i conti con la blogosfera.
Queste considerazioni mi erano suggerite dalla natura delle affermazioni che hanno caratterizzato l’aspetto più interessante delle missive che un tizio mi ha inviato a margine di una polemica che abbiamo consumato pubblicamente a partire dalla pubblicazione di alcune sue opinioni sull’embrione e su Kant. Su quanto fossero sgangherate, anche se a fatica, non ha potuto che convenire e tuttavia mi ha mosso un grave rimprovero e un severo monito. In breve, sfrondando il superfluo, dimostrare da queste pagine che aveva scritto cazzate non toglieva nulla alla sua autorevolezza. Averlo dimostrato, mi scriveva, “le procura plausi sul web, dove nulla conta nulla, ma non sfiora i piani dove vengono prese le decisioni [sic!]”: sì, conveniva, probabilmente aveva citato Kant a cazzo di cane, e aveva dimostrato di non sapere affatto cosa sia la meiosi, ma “questo non sposta di una virgola la mia vita, non solo perché essa è fondata su tanti oggettivi privilegi e si svolge, di fatto, fra tante bellissime cose, ma perché ciò che conta è altro” Non gli ho chiesto cosa, mi è sembrato di poterlo intuire, e di non aver bisogno di conferma.
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