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CITTA’: La Kiev di Bulgakov

Creato il 13 novembre 2013 da Eastjournal @EaSTJournal

 

Manuele Fior Guardia Bianca E1384354301732

Riprendiamo il capitolo IV del romanzo di Michail Bulgakov, La guardia bianca (ed. Feltrinelli, trad. Serena Prima), in cui l’autore si profonde in una descrizione della città di Kiev, così come poteva apparire durante l’inverno del 1918-19, ai margini della prima guerra mondiale e al tempo della guerra civile russa tra i “rossi” e i “bianchi”. Buona lettura.

Come un affastellarsi di favi, vaporava, e rumoreggiava, e viveva la Città. Splendida nel gelo e nella nebbia sulle colline, sopra al Dnepr. Per giorni interi, a spirali, il fumo si levava verso il cielo dagli innumerevoli camini. Le vie fumigavano foschia, e scricchiolava l’enorme quantità di neve ammaccata. E case di cinque, e di sei, e di sette piani si ammucchiavano le une accanto alle altre. Di giorno le finestre erano nere, ma di notte ardevano a file nel blu scuro dell’alto cielo. A piccole catene, fin dove l’occhio poteva arrivare, come pietre preziose, splendevano i globi elettrici, appesi in alto agli uncini di lunghi pali grigi. Di giorno, con un gradevole rombo prolungato, correvano i tram con i gialli sedili di paglia leggera, sul modello di quelli stranieri. Da un declivio all’altro, gridando ai quattro venti, andavano i vetturini, e i colletti scuri – di pelo argentato e nero – rendevano enigmatici e belli i volti delle donne.

I giardini erano taciturni e quieti, gravati da una neve bianca, intatta. E di giardini in Città ce n’erano cosi tanti, come in nessun’altra città al mondo. Si stendevano come enormi chiazze, con viali, castagni, burroni, aceri e tigli.

I giardini si mettevano in mostra sulle magnifiche colline che sovrastavano il Dnepr e su tutti gli altri, salendo verso l’alto a terrazze, allargandosi, ora screziato da milioni di chiazze di sole, ora avvolto da dolci crepuscoli, regnava l’eterno Giardino dello Zar. Le vecchie travi nere e marce del parapetto non ostacolavano l’accesso ai dirupi vertiginosi. Le pareti a picco, coperte dalla neve della tormenta, ricadevano sulle lontane terrazze inferiori, e quelle si allontanavano sempre più remote e più ampie, si tramutavano nei boschetti costieri sopra la strada, che si attorcigliava lungo la riva del grande fiume, e lo scuro nastro gelato si perdeva laggiù, nella foschia, dove anche dalle alture della Città l’occhio umano non giungeva, dove erano le rapide argentee, la Zaporožnaja Seč, e il Chersoneso, e il mare lontano.

D’inverno, come in nessun’altra città al mondo, calava la quiete sulle vie e sui vicoli tanto della Città alta, sulle colline, che della Città bassa, che si stendeva lungo le anse del Dnepr intirizzito, e tutto il rombo delle macchine si perdeva all’interno degli edifici di pietra, si smorzava e diventava un borbottio sordo. Tutta l’energia della Città, accumulata nel corso di un’estate di sole e temporali, si profondeva in luce. Dalle quattro del pomeriggio la luce cominciava ad ardere nelle finestre delle case, in tondi globi elettrici, nei lampioni a gas, nei fanali delle case con i numeri illuminati, e nelle vetrate a tutta parete delle centrali elettriche, che evocavano il pensiero del futuro elettrico dell’umanità, terribile e irrequieto, con le loro finestre a tutta parete dove si vedevano le ruote scatenate delle macchine che giravano senza posa, squassando fino alla radice le fondamenta stesse della terra. Scintillava di luce e traboccava luce, riluceva e danzava e baluginava la Città, nelle notti, fino al mattino, e al mattino si spegneva, indossava il fumo e la nebbia.

Ma più di ogni altra cosa riluceva la bianca croce elettrica tra le mani del colossale Vladimir sulla collina Vladimirskaja, e la si vedeva da lontano, e spesso, d’estate, nella nera tenebra, nelle insenature disordinate e nei meandri del fiume-vegliardo, le barche la vedevano e seguendo la sua luce trovavano la via acquea che portava alla Città, ai suoi ponti d’approdo. D’inverno la croce splendeva nella nera boscaglia del cielo e fredda e quieta regnava sulle buie lontananze digradanti della riva moscovita, dalla quale si protendevano due enormi ponti. Uno sospeso, pesante, il ponte Nikolaevskij, che portava al sobborgo sull’altra riva; l’altro, altissimo, simile a una freccia, lungo il quale correvano i treni che provenivano da dove, molto, molto lontano, si stendeva, dopo aver allargato il suo berretto variopinto, Mosca, la misteriosa.

Ed ecco che, nell’inverno del 1918, la Città viveva una vita strana, innaturale, quale con ogni probabilità più non avrà a ripetersi in tutto il ventesimo secolo. Di la dalle pareti di pietra tutti gli appartamenti erano stracolmi. La gente che da tempo immemorabile ci viveva si stringeva e continuava sempre più a stringersi, per accogliere, volente o nolente, sempre nuovi rifugiati che confluivano nella Città. E questi arrivavano proprio da quel ponte simile a una freccia, da quei luoghi da cui si levavano enigmatiche foschie azzurrognole.

Fuggivano banchieri brizzolati con le loro mogli, accorrevano abili uomini d’affari, che si erano lasciati alle spalle, a Mosca, i propri fiduciari, ai quali era stato dato ordine di non perdere i legami con quel nuovo mondo che stava venendo alla luce nel regno moscovita, proprietari di case, che avevano abbandonato le case a fedeli amministratori segreti, industriali, mercanti, avvocati, politici. Fuggivano giornalisti, di Mosca e Pietroburgo, prezzolati, ingordi, vigliacchi. Cocottes. Dame rispettabili di famiglie aristocratiche. Le loro tenere figlie, le pallide donne dissolute di Pietroburgo, con le labbra dipinte di carminio. Fuggivano i segretari dei direttori di dicasteri, giovani pederasti passivi. Fuggivano principi e accaparratori, poeti e strozzini, gendarmi e attrici dei teatri imperiali. Tutta questa massa, insinuandosi nella fessura, si dirigeva verso la Città.

Per tutta la primavera, a partire dall’elezione dell’etmano, la Città aveva continuato a riempirsi di rifugiati. Negli appartamenti si dormiva sui divani e sulle sedie. Si pranzava in enormi compagnie alle tavole delle dimore più ricche. Si aprivano innumerevoli piccole botteghe dove si poteva mangiare fino a notte avanzata, locali dove si serviva caffè e dove era possibile comprare una donna, nuovi teatri di varietà, sulle cui scene facevano smorfie e intrattenevano il pubblico attori sempre più famosi, fuggiti dalle due capitali, aveva aperto il celebre teatro Il negro viola e, in via Nikolaevskaja, il maestoso Club Cenere (poeti, registi, artisti, pittori), nel quale fino a giorno fatto c’era rumore di stoviglie. Subito erano usciti nuovi giornali, e le migliori penne di Russia avevano cominciato a scriverci i loro feuilletons e, in questi feuilletons, a ingiuriare i bolscevichi [...]

Spedivano lettere verso l’unico punto di sfiato, attraverso l’inquieta Polonia (a dire il vero nemmeno un diavolo sapeva che cosa vi stesse capitando e cosa fosse questo nuovo paese, la Polonia), verso la Germania, il grande paese degli onesti teutoni, informandosi sui visti, trasferendo denaro, subodorando che, forse, sarebbe loro toccato andare sempre più lontano, là dove in nessun caso li avrebbero raggiunti la terribile battaglia e il frastuono dei bellicosi reggimenti bolscevichi. Sognavano la Francia, Parigi, si struggevano al pensiero che arrivare laggiù era molto difficile, quasi impossibile. Ancor più si struggevano nei momenti in cui quei pensieri terribili e non del tutto definiti li raggiungevano, all’improvviso, nelle notti insonni trascorse su divani altrui.

“E se a un tratto? E se a un tratto? E se a un tratto? Dovesse saltare questo cordone di ferro… E riuscissero a fare irruzione i grigi… Oh, che orrore…”

Questi pensieri giungevano quando, lontano, lontano, si udivano i colpi attutiti dei cannoni — nei dintorni della Città per un qualche motivo spararono per tutta l’estate, splendida e calda, quando dappertutto e dovunque i tedeschi metallici salvaguardavano la pace, ma nella Città stessa si sentivano costantemente gli spari sordi nelle periferie: pa-pa-pah.

Chi sparasse, e a chi, nessuno lo sapeva. Accadeva di notte. E di giorno ci si calmava, di tanto in tanto lungo il Kresčatik, la via principale, o lungo la Vladimirskaja, si vedeva passare un reggimento di ussari germanici. Ah, e che reggimento! I berretti di pelo si posavano su volti fieri, e i sottogola a scaglie bloccavano i menti di pietra, i baffi fulvi si levavano come frecce verso l’alto. I cavalli degli squadroni avanzavano a quattro a quattro, in ranghi serrati, possenti, sauri, e giubbe grigioazzurre erano indossate da seicento cavalieri, come le divise di ghisa dei massicci condottieri germanici dei monumenti della piccola città di Berlino.

Dopo averli visti, la gente si rallegrava e si tranquillizzava e si rivolgeva ai lontani bolscevichi, digrignando malignamente i denti da dietro la protezione del filo spinato della frontiera: “Avanti, fatevi sotto!”.

 [...]

C’erano gli altri, i capitani in seconda dell’esercito di reggimenti ormai inesistenti e allo sbando, i bellicosi ussari dell’esercito, come il colonnello Naj-Turs, centinaia di alfieri e di sottotenenti, di ex studenti, come Stepanov-Karas’, sbattuti fuori dal normale corso della vita dalla guerra e dalla rivoluzione, e i tenenti, anch’essi ex studenti, ma che avevano chiuso definitivamente con l’università, come Viktor Viktorovič Myšlaevskij. Costoro, con indosso logori cappotti grigi, con ferite non ancora rimarginate, con sulle spalle l’impronta delle spalline strappate, arrivavano in Città, e nelle loro famiglie o presso famiglie estranee dormivano sulle sedie, si coprivano con i cappotti, bevevano vodka, correvano, si davano da fare e ribollivano di rabbia. Ecco, erano proprio questi ultimi a odiare i bolscevichi di un odio ardente e diretto, di quel tipo di odio che può portare allo scontro.

C’erano gli junker. In Città, all’inizio della rivoluzione, esistevano quattro istituti militari – uno del genio, uno per gli artiglieri e due per la fanteria. Erano stati chiusi e si erano sfasciati nel frastuono della fucileria soldatesca, e avevano buttato sulla strada, ormai deviati dalla propria natura, corsisti che avevano appena terminato il ginnasio, studenti che avevano appena cominciato l’università, né bambini né adulti, né militari né civili, ma ragazzi come il diciassettenne Nikolka Turbin…

“Tutto ciò, naturalmente, è molto carino, e su tutto regna l’etmano. Ma, in nome di Dio, ancora adesso non so e, con
ogni probabilità, nemmeno saprò fino alla fine della mia vita, che cosa rappresenti questo straordinario sovrano con un
titolo che più s’adatta al diciassettesimo secolo che al ventesimo.”
“Già, chi è esattamente, Aleksej Vasil’evič?”
“Un cavaliere della Guardia, un generale, un ricco e solido proprietario terriero, e si chiama Pavel Petrovič…”
Per una strana ironia del destino e della storia la sua elezione, che aveva avuto luogo nell’aprile del celebre anno, si era svolta in un circo. Questo fornirà probabilmente ai futuri storici abbondante materiale per fare dell’umorismo. I cittadini tuttavia, in particolare quelli stabilitisi in Città e già provati dai primi scoppi di lotte intestine, non solo non trovavano la cosa umoristica, ma in generale non erano nemmeno disposti a qualsivoglia riflessione sull’argomento. L’elezione aveva avuto luogo con sbalorditiva rapidità – e grazie a Dio. L’etmano era salito al potere; perfetto. L’importante era che nei mercati ci fossero carne e pane, e che per le strade non ci fossero sparatorie, e che, per carité di Dio, non ci fossero bolscevichi, e che il popolino non si abbandonasse ai saccheggi. Ebbene, tutto questo con l’etmano era più o meno accaduto, e in fondo persino in maniera rilevante. Per lo meno gli abitanti di Mosca e Pietroburgo in fuga e la maggioranza dei cittadini, anche se se la ridevano dello strano paese dell’etmano, che loro, come il capitano Tal’berg, definivano un’operetta, un regno per burla, l’etmano lo incensavano sinceramente… e… ‘Voglia Iddio che così continui in eterno’.

Ma che ciò potesse continuare in eterno nessuno avrebbe potuto dirlo, e nemmeno lo stesso etmano. Eh, si. Il fatto era che la Città era la Città, e dentro c’era anche la polizia — la Varta, e il ministero, e persino l’esercito, e testate di giornali delle più varie, ma ecco che nessuno sapeva quello che stava accadendo attorno, in quella vera Ucraina che per dimensione é più grande della Francia, nella quale ci sono decine di milioni di persone. Non sapevano, non sapevano niente, non solo dei luoghi lontani, ma persino, ridicolo a dirsi, dei villaggi situati a cinquanta verste dalla Città stessa. Non sapevano, ma odiavano con tutta l’anima. E quando giunsero confuse notizie, da regioni misteriose che si chiamano campagna, su come i tedeschi saccheggiassero i mužiki e li punissero senza pietà scaricando loro addosso le mitraglie, non solo non si levo alcuna voce di sdegno in difesa dei mužiki ucraini, ma piu di una volta, sotto ai serici paralumi dei salotti, si digrignarono i denti come lupi e si sentì il borbottio:
“E’ così che si deve fare! E’ così, ed é ancora poco! Io farei di peggio. Cosi si rammenteranno la rivoluzione. Glielo insegneranno i tedeschi – i vostri non li avete voluti? Provate un po’ gli altri”.

“Oh, come sono irragionevoli i suoi discorsi, oh, come sono irragionevoli.”
“Ma che dice, Aleksej Vasil’evič!… Si tratta di tali canaglie. Sono davvero delle bestie feroci. Bene, i tedeschi gliela faranno vedere.”
I tedeschi!!
I tedeschi!!
E dappertutto:

I tedeschi!!!

I tedeschi!!
Bene: qua i tedeschi, e là, oltre il cordone lontano, dove sono i boschi grigioazzurri, i bolscevichi. Due forze soltanto.

Foto: Manuele Fior

 


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