di Christian Eccher
Il treno dai sedili neri, grandi come poltrone che porta i turisti e gli uomini d’affari dall’aeroporto di Sheremetyevo fino alla stazione Beloruskaya scorre rapido sui binari; i passeggeri leggono o parlano al telefono incuranti delle vecchie carrozze verdi e austere dei convogli regionali che, lenti e faticosi, arrancano in direzione opposta. Mosca permette che l’occidente si incunei nella sua struttura urbana, ma solo lungo i cuniculi della metro, nei grandi palazzi di vetro o sulle rotaie ghiacciate che indifferenti scavano solchi nel cemento e nell’asfalto (Non riuscivo a chiudere occhio la sera prima, gioivo come un bambino. Appoggiata a un pilastro aspettavi, ormai sfiduciata che io potessi arrivare. La sala degli arrivi era deserta, dominavano la plastica di pareti divisorie montate in tutta fretta, i negozi scintillanti di liquori, gli enormi e lampeggianti schermi al plasma).
Mosca è sconforto e solitudine: i palazzi del centro di epoca sovietica, che innalzano pinnacoli e stelle rosse, rimangono indifferenti al passaggio delle signore con il fazzoletto in testa, intente a raggiungere le chiese dalle cupole d’oro, sorte ovunque dopo la caduta del comunismo. Queste donne, per lo più anziane, talvolta giovani e slanciate, si perdono in un altro inganno: il cielo di Mosca, turgido e compatto, non lascia spazio alla salvezza (Nei grandi boulevard, fra gli edifici dalle porte e dalle finestre serrate, nella coda ininterrotta di auto che si avvinghia come un serpente intorno ai parchi, alle fontane e ai palazzi della città, io mi affidavo alla tua mano: l’inferno ha il sapore del miele).
Città di imperi, di poteri chiusi e assoluti, Mosca è il simbolo della transizione che non passa. Le oligarchie hanno saldamente in mano il controllo dell’intero paese, ma sono invisibili, inutile cercare di carpirne i segreti: inutile cercare il confine fra la new economy e i poteri mafiosi. Le finestre annerite della Lukoil, una delle più potenti compagnie petrolifere russe, sono mute e non si aprono sulle strade antistanti. Proteggono l’interno dell’edificio dal resto della città, e la città nelle sue finestre vede rispecchiati i mendicanti, le ragazze con i pantaloni attillati, l’iPod alle orecchie, e nella mente il più patriarcale dei sogni, sposare bene e riccamente (Non resta che rifugiarsi nel sottosuolo, nei cunicoli della metropolitana; il calore degli uomini accalcati e la luce pallida che piove dalle lampade stordiscono, sciolgono le coscienze in un fluido che affratella e inghiotte. Seduta, appoggiavi la testa sul mio petto, ma il battito era quello ritmico e frenetico delle ruote di ferro che sobbalzano sui vuoti fra le rotaie).
Smarrito nei ricordi
Da ogni angolo della stanza
Mi abbraccia la tua assenza
(Gëzim Hajdari)
Anche il Cremlino è chiuso in sé stesso. Ai turisti offre la grandiosità della Piazza Rossa, con le cupole addolcite della Cattedrale di San Basilio – illustrazioni da un libro di favole, le cupole colorate e grandi come meringhe – e il grande centro commerciale che gli sorge proprio di fronte. Il momumento a Lenin, un edificio basso davanti al quale i viaggiatori del Mondo Nord si accalcano per farsi fotografare – con la benedizione dei tour operarator – è presidiato da una poliziotta dagli stivali neri che parla al cellulare con lo sguardo basso, intenta a dare piccoli calci a un sasso. Mosca decide dove e in che misura offrire al pubblico la propria storia: severa e arcigna, la Russia non ama parlare di sé. (Nei giardini del Cremlino una banda di fiati suonava melodie popolari per i turisti. Ma a ballare erano anziane coppie russe che nel vestiario e nelle movenze ricordavano la Vienna di inizio secolo. Un ragazzo dai denti rifatti in oro faceva vorticare a ritmo di musica la ragazza con cui – composto – aveva deposto poco prima un mazzo di fiori davanti al monumento ai caduti. I poliziotti avevano alzato la catena per farli passare.“Quant’è una pensione in Russia”, chiedevo io, perso fra il rosso degli edifici, le arcate immense degli aerei, i grandi cumuli bianchi che impiccolivano il cielo e la Vienna di Mahler).
Mosca vive nella paura. Paura del proprio passato, del presente di Putin che è riuscito a ricreato l’assolutismo sovietico. Al posto dell’ideologia proletaria, a dominare è il neo-capitalismo senza regole. Il grande impero sovietico è diventato un immenso mercato: il nero delle miniere e del petrolio viene adesso quotato in borsa, a New York come a Pechino. Mosca vive l’incubo della dissoluzione. Dopo l’Ucraina, il Kazakistan, i paesi baltici e gli stati divenuti indipendenti al crollo dell’URSS, altre nazioni cercano di affrancarsi da Mosca. La Cecenia si è ribellata con attentati sanguinari da cui Mosca si difende non soltanto mandando soldati negli angoli più sperduti dell’impero, ma anche blindando sé stessa. I teatri, i musei, i supermercati, le sale da concerto, sono ormai simili ad aeroporti: metal detector, agenti armati e con l’auricolare presidiano gli ingressi (L’“Italiana” di Mendelsshohn, con la solarità mediterranea del “Salterello” finale, fu accolta da un grande applauso. Ma il boato riempì la sala soltanto al terzo bis, quando l’orchestra cominciò a suonare una melodia di Čajkovski. È questa la grande anima malinconica dei russi, avrei voluto chiederti. Ma un’arcigna maschera ci aveva già separati perché i numeri che avevamo occupato non corrispondevano a quelli sui biglietti).
La periferia appare uguale ovunque. Enormi caseggiati, strade larghe inframmezzate da hotel costosissimi, kitsch, con abbondanti colazioni “vip” e stanze dai letti enormi, cuscini morbidissimi e piume di pavone. I mini-bus guidati da autisti uzbeki e turkmeni cercano di fare concorrenza agli autobus lì dove la metropolitana non arriva. Lungo questi boulevard, le persone non si guardano mai negli occhi (La signora smilza della reception si stupiva che volessi dormire in quell’hotel sovietico, con l’ascensore dalle pareti di cartone e i letti piccolissimi. A te veniva da ridere. Come spiegarle, come spiegarti, che in occidente nel Comunismo abbiamo creduto? Come spiegarle, come spiegarti, che da noi era un’altra cosa, un sogno di libertà? Come spiegarle, come spiegarti che adesso non abbiamo più niente? Neanche una lingua comune per farci capire da chi è nato e cresciuto a est di Trieste?).
Mosca vive isolata dal resto della Russia. I moscoviti guardano quasi con disprezzo chi viene da fuori, dalle profondità remote dell’ancor immenso impero. Esiste, a Mosca, una “buona” borghesia, ma è minoritaria: liberi professionisti, medici, professori universitari, sono come schiacciati fra la massa che vive ben al di sotto della soglia di povertà e la casta degli oligarchi. La “buona” borghesia si concentra tutta nelle grandi città, è forse l’anima di Mosca, ma non ha alcun potere a livello politico. Non conta nulla. (Sull’Arbatskaya, un cane camminava saltellando sulle gambe posteriori, quelle anteriori abbracciavano la gamba del padrone che lo teneva al guinzaglio. Mancavi da un po’. Scesi nel sottoscala del caffè, eri ferma ed estasiata di fronte a una gigantografia murale di un paese dell’Italia meridionale. Sole e case disabitate. A lungo ho vagheggiato i laghi freddi del tuo nord, da sempre sogni gli incendi al tramonto nel mio sud. Le storie di partenze senza ritorni del Molise e dell’Istria erano per te la favola più dolce).
Nello straniero non c’è fiducia, ai turisti si offrono matriosche; lascino i soldi e se ne vadano il prima possibile. Difficile anche solo orientarsi nella metropolitana se non si conosce il cirillico. Difficile anche comprare un biglietto del treno senza pagarlo sei volte di più se non si sa il russo. Gli occidentali sono ancora, in Russia, nemici. I russi e i popoli dell’est sono ancora, in occidente, nemici (Quasi non ci accorgevamo di parlare tedesco. Ci sembrava di parlare la lingua universale, quella antecedente alla Torre di Babele. Senza grammatica e senza sintassi, rinunciavamo a ordinare il mondo nel fragoroso e stridente universo moscovita, rutilante di rabbia, povertà, ricchezza, disperazione, rassegnazione. Solo nel caos primordiale si possono incontrare e fondere, per un momento, e per sempre, le differenze più inconciliabili).