Acrilico su cartoncino della copertina “La città vecchia – Delitto di paese” di Fabrizio De André
Amo la parte vecchia di una città. Spesso dedali di piccole strade chiuse al traffico, scorci urbani simili a quadri, muri segnati da rughe profonde e ferite non rimarginate che trasudano esperienze e trasmettono lo scorrere del tempo, finestrelle senza soluzione di continuità alcune, oggi, con tendine candide ai vetri, altre spoglie a testimoniare anni non facili.
Si cammina, si osserva, s’immagina, si rivive come in una pellicola in bianco e nero.
Porte d’ingresso si alternano a negozietti e bar, antiche osterie oggi diventate perlopiù locali trendy, ma che uno sguardo attento non può non associare a epoche passate, agli incontri tra gli abitanti del quartiere. D’inverno, vetri appannati e inumiditi dal vapore dell’interno, sagome d’individui avvolti nel fumo, vociare confuso, luce fioca al soffitto. D’estate, tavolini all’aperto, partite a carte, chiacchiere in dialetto davanti a un buon bicchiere di vino, profumo di tabacco volteggiante in spirali al passaggio di un raro refolo di vento.
La parte vecchia è l’anima della città, quella che più la fotografa, che s’identifica con l’immagine di chi l’ha abitata, donne e uomini umili che alla vita hanno chiesto poco e ricevuto ancor meno. Una città nella città.
Oggi i turisti portano il nuovo, i loro portafogli si aprono generosamente per accaparrarsi un ricordo, fanno tintinnare le casse; il loro via vai non riesce tuttavia a cancellare le impronte di scarpe consunte o ciabatte slabbrate, proprio come i souvenir appesi ai mattoni a vista non tamponano gli spazi di un tempo che fu.
Amo gli odori della città vecchia: l’umidità ammuffita emanata dalle grate sui marciapiedi, cantine oggi forse dimenticate, il profumo del ragù, della frittura di pesce, delle frittate… , la città vecchia è simile ovunque nel risvegliare sensazioni.
Amo anche l’odore di umanità, della folla multietnica che si accalca nelle ore di punta e si sovrappone, si fonde e confonde, nell’immaginario, ai personaggi di un tempo, icone di una vita libera, istintiva, autenticamente antiborghese.
Città vecchia
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
(Umberto Saba, Trieste e una donna, 1910-1912; in Il Canzoniere, vol I, Einaudi, 1945, prima ed.)
Una via oscura, turpe in cui il suo pensiero si fa più puro.
Paradosso? No. La gente che popola la città vecchia è molto vicina all’autenticità dell’esistenza: la sua vitalità è per Saba un valore positivo, nella sua umiltà ritrova l’infinito, in questo detrito umano riconosce la presenza di un Creatore, di un Padre capace di elevarlo e conferirgli la dignità che una tranquilla mentalità benpensante ha tolto. La sofferenza purifica queste creature della vita e, con esse, chi osserva.
Quadri di vita popolare in un quartiere portuale: è la Trieste di Saba, è la Genova di Faber.
Il brano, uscito nel 1964 in un singolo, fu inserito due anni più tardi nell’album Tutto de André.
Dalla poesia di Saba ai versi in musica di De André è trascorso più di mezzo secolo, eppure sembra che nulla sia cambiato.
La prostituta diventa la bimba che canta la canzone antica della donnaccia, che imparerà il mestiere con l’esperienza, poco importa se manca la vocazione. È il suo destino, lì, e diventerà anche lei, forse, l’ossessione di un vecchio borghese bavoso, magari professore, schiavo delle sue voglie, capace di chiamarla con disprezzo pubblica moglie di giorno (specie di troia nella versione originale censurata) e disposto a pagare qualunque prezzo di notte per provare la gioia del sesso trasgressivo.
Il vecchio che bestemmia si trasforma in quattro pensionati avvinazzati che cercano la felicità dentro a un bicchiere per dimenticare di essere stati presi per il sedere.
L’ambientazione e le osterie: a Trieste, a Genova, nei bassifondi di Milano o Roma, Napoli o Palermo si assomigliano tutte, luoghi simbolici del degrado, dell’emarginazione e vite difficili, che sia il detrito di Saba o i quartieri di Faber dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, un Dio troppo impegnato a scaldar la gente d’altri paraggi.
Di fronte a tale realtà, l’osservatore può giudicare, provare disgusto, condannare oppure scoprire nel profondo un’umanità comune a tutti.
Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese
li condannerai a cinquemila più le spese
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non son gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.
canta Faber
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
scrive Saba.
Per entrambi, individui come specie di eroi illuminati da Dio o dimenticati dai raggi della sua luce. Diversa idea di fondo, ma medesimo senso di solidarietà, stessa pietas e assenza di commiserazione.
Un’umanità da cambiare, da redimere forse? Non vedo desiderio di risolvere i mali del mondo: la città vecchia è così, è quella reale, la visione disillusa è ben lontana da sentimentalismo o utopie irraggiungibili. La sintesi è nella comprensione mostrata da chi ne percorre angoli e vicoli, nella capacità di riconoscersi umili e bisognosi di uno sguardo umano. Tutti, indistintamente.