In Svizzera si continuerà a praticare l’eutanasia, anche per i non residenti nel Paese. I cittadini del cantone di Zurigo, il più popolato, hanno respinto in percentuale massiccia (l’80%) il referendum sulla “dolce morte” basato su due quesiti e promosso da due partiti conservatori. Il primo, presentato dall’Unione Democratica Federale (Udf, di ispirazione cristiana), puntava a chiedere al Parlamento svizzero di rendere punibile qualsiasi forma di istigazione e di aiuto al suicidio. Il secondo, avanzato dal Partito Evangelico, mirava a porre fine al “turismo della morte”, limitando la possibilità di eutanasia ai soli residenti nel cantone da almeno dieci anni. In Svizzera, il suicidio assistito è consentito dal 1941, ma il governo federale sta per presentare un disegno di legge che disciplini l’assistenza organizzata alla dolce morte.
La morte dignitosa rimane una speranza triste ma praticabile per i cittadini di un paese che con una disinvolta capriola logico-retorica sta partecipando a cinici programmi di esportazione della libertà, a coprire le inconfessabili ragioni della guerra. E che un po’ di libertà e qualche diritto pare siano condannati a andarseli a cercare altrove.
Pare siano già 30 gli italiani “emigrati” per morire. Non ho il conto di quanti siano i figli di italiani “emigranti della fecondazione assistita”, tra gli oltre tre milioni di piccoli uomini definiti in Italia bambini della provetta, per imprimere su di essi un marchio negativo, di serie B come quelli dell’oca nera.
È che innovazioni tecnologiche e scientifiche, quelle dell’informazione e quelle che incidono sui modi di nascere, di vivere e di morire, hanno stravolto antropologicamente certezze, diritti e gestione della libertà collettiva e individuale, ammesso che si possa ricorrere a questa “ripartizione” artificiale, facendo dell’esistenza e delle sue “regole” un campo di battaglia nel quale si combattono fede e laicismo, interessi economici e garanzie deontologiche, pregiudizi e fiducia cieca nella scienza.
Si manifestano angosce e si materializzano spettri senza peraltro dissipare tabù. Il diritto appare una specie di cura sociale e produce una richiesta di norme limiti e divieti, come se perdute le regole della natura, piegata a consumi, profitto, integralismi, tecnica, la società si rivolgesse al diritto per avere rassicurazione e protezione.
Da noi questa specie di spaesamento è aggravato. Sembriamo incapaci di vivere il confronto con quel politeismo di valori, effetto oggettivo della globalizzazione e della comune assunzione di un necessario riconoscimento del pluralismo. Ne siamo esclusi per via di una cultura confessionale e dell’egemonia di un regime che ha ridotto il contesto democratico e dell’autodeterminazione.
Nel generalizzato ricorso alla delega dall’alto si regolano aree della nostra vita secondo quella che Pasolini definì la norma a una dimensione, nella quale una morale di Stato interpreta e rappresenta non il riflesso di un comune sentire, ma il dettato di una chiesa.
Questa commistione nella quale discorsi religiosi – sedicentemente tradotti in linguaggio laico, non solo non sono negoziabili, ma vengono imposti autoritariamente per legge – segnano una profonda limitazione della libertà. Ma indicano drammaticamente (come nel caso del referendum sulla fecondazione e sulla inazione dell’opposizione in merito alla prepotenza del governo in merito alla fine vita) la nostra impotenza a goderne interamente come se vi fossero aree tenebrose della nostra esistenza nelle quali le scelte e i diritti spaventano anziché esaltare la nostra umanità, e il bisogno di rassicurazione ha la meglio su identità e autonomia.
Non voglio dare ragione ad Hanna Arendt quando dice che non si dovrebbe lasciare la libertà nelle mani di chi non la sa impiegare, ma non dobbiamo esimerci da essa. Si potrebbe tentare un catalogo dei diritti che incarnano la più formidabile richiesta di riconoscimento di poteri ai singoli che sia mai stata conosciuta. Diritto di procreare, diritto di nascere o non nascere. Diritto di nascere sano e di avere una famiglia composta da due genitori dello stesso sesso o diverso. Diritto a un patrimonio genetico non manipolato. Diritto di conoscere la propria identità biologica e quello dell’integrità fisica e psichica. Diritto di sapere o non sapere. Diritto alla cura. Diritto di rifiutare la cura. Diritto di morire con dignità e diritto al suicidio assistito.
Non è un inventario arbitrario o fantasioso. Come per tutti i diritti, anche in quesi campi si combatte una battaglia contro l’illegittimità, l’esclusione, la discriminazione, l’autoritarismo, l’oscurantismo. Non possiamo lavarcene le mani perché non sono affari nostri. Il nostro corpo, la nostra nascita, la nostra vita, la nostra morte sono i presidi della persona umana alla quale in nessun modo si può mancare di rispetto. La vita è “un movimento ineguale, irregolare, multiforme” anche nel suo concludersi. Io non vorrei mai essere espropriata del mio diritto a lasciare qui almeno l’impronta della mia scelta libera e la sia pur labile memoria della mia dignità.