Parlando di cinema, esistono pellicole per le quali il tempo non sembra passare mai, ed è più che salutare lasciarsi andare ai sentimentalismi, al ricordo di sensazioni distorte dal passare del tempo e alla freschezza del trasporto che solo una sana ingenuità è capace di regalare. Una di queste è, almeno per quanto mi riguarda, Classe 1999. Film diretto da Mark L. Lester nel 1989 e versione più tamarra e meno riflessiva del suo precedente Classe 1984, da cui praticamente eredita solo il tema della violenza nelle scuole.
Per godersi in pieno un film come Classe 1999 è necessario, appunto, essere dei sognatori. Ma non parlo di chi sogna gli unicorni che cavalcano arcobaleni e principi azzurri vari, bensì chi sogna di radere al suolo qualsiasi ostacolo verso la propria libertà.
Ovviamente, essendo un film ambientato in un liceo, più lo spettatore è carico di odio verso la scuola, i professori e tutto ciò che potrebbe far parte della routine di un ragazzino, più la goduria sarà assicurata.
Abbiamo un futuro, a quei tempi non troppo lontano, in cui le scuole erano assediate da gang di balordi che avevano terreno fertile per fare di tutto fuorché aprire un libro. Uno sfigatissimo preside (il mitico Malcolm McDowell) e uno stronzissimo scienziato (uno Stacy Keach dagli occhi inquietanti) tentano di ristabilire l’ordine e dare l’esempio, utilizzando tre robot da combattimento travestiti da insegnanti (Pam Grier, Patrick Kilpatrick e John Ryan), per ristabilire la disciplina nelle classi. Tutto sembrerebbe funzionare alla perfezione, se non fosse che i robot iniziano a farsi prendere troppo la mano con le punizioni agli allievi, finendo per dare il via a un massacro.
Ora: io con la scuola ho sempre avuto un brutto rapporto, ma se con la vita da studente era un rapporto di amore e odio, quello con i professori è stato sempre e solo un rapporto di odio. Per questo riesco a sentirmi inebriato, e a tornare al livello intellettivo della pietra pomice, ogni singola volta che vedo Classe 1999. Da una parte vivo l’estasi del lato nerd della mia anima, che sognava di vedere robot del genere anche nella realtà e non solo nei suoi sogni erotici con la fidanzata di Mazinga Z. Dall’altra parte, invece di qualche variabile che mi aiuti a bilanciare l’equazione e restare coi piedi per terra, trionfa l’odio per i professori, specialmente quelli che disprezzano tutto ciò che è divertimento e spirito di classe.
Inutile dire che la mia simpatia va tutta al protagonista, interpretato da Bradley Gregg, che riesce a rompere il culo ai robot e a farsi inesorabilmente la figlia acqua e sapone del preside (una Traci Lind che riesce ancora a fare la sua bella figura), cosa che, ai tempi del liceo, ti rendeva famoso e stimato quanto uno che riesce a vincere da solo la guerra in Vietnam usando una pistola ad acqua e una fialetta puzzolente.
Dato i presupposti, quindi, mi è impossibile non adorare e promuovere in toto Classe 1999. In fondo è un piccolo cult generazionale e si sa, in questi casi, ogni limite riusciva ad essere nascosto dall’affetto e la passione che il film sapeva trasmettere. Se si fossero avuti più soldi per ingaggiare nomi più famosi, o avere effetti speciali di migliore qualità (e va tenuto presente che, nonostante l’età, sono ancora più che dignitosi), probabilmente si sarebbe parlato di tutt’altro film.
Questa piccola chicca della fantascienza (che poi a vedere come e in che direzione le cose nelle scuole siano cambiate con gli anni una riflessione su quanto sia stato avanti con i tempi questo film diventa inevitabile), dimostra ancora una volta che, se dietro a un progetto c’è una storia scritta, diretta e interpretata con la giusta passione, il budget è solo un aspetto marginale per chi dal film viene catturato ben prima di avere la VHS tra le mani.