Nel settembre scorso, è uscito per Fazi Editore, il volume Poesie ( 1984-2010) di Claudio Damiani. L’opera presenta il percorso poetico di Damiani attraverso una selezione di testi delle sue raccolte edite Franturno ( 1987) , La mia casa (1994), La Miniera(1997) Eroi (2000), Attorno al fuoco ( 2006) Sognando Li Po ( 2008) e dell’inedita Il fico sulla fortezza .
Le recensioni apparse sui maggiori quotidiani nazionali , tra cui il Corriere della Sera, Avvenire, La Repubblica, l’Unità, il Sole 24 ore e su molti giornali e siti web, hanno presentato Damiani soffermandosi sulla coerenza poetica dei contenuti e del linguaggio che si distingue nel panorama letterario per l’originalità del suo canto che Marco Lodoli nella prefazione definisce “ il respiro profondo e ciclico della vita”.
A fronte di tanti critici non posso aggiungere niente, anche se per Sognando Li Po osai postare una nota di lettura nel blog La Poesia e lo Spirito quando le pubblicazioni di Viadellebelledonne erano state momentaneamente sospese. Mi limito quindi a riportare la prefazione di Marco Lodoli e a offrirvi alcuni dei testi a me più cari, tra quelli legati alla mia terra, uno dei tanti luoghi del cammino umano e poetico dell’autore, che sono stati letti in occasione del reading di poesia “ Che bello che non siamo eterni” che si è svolto al Cinema Sacher di Roma il 27 settembre in occasione dell’uscita del libro.
Prefazione di Marco Lodoli
Era il 1977, ero appena tornato da Parigi dove avevo vissuto per un paio di mesi insieme a Edoardo Albinati, il primo amico della giovinezza. A Parigi mi ero inebriato di contemporaneità, io che avevo studiato in un istituto cattolico, che vivevo di inadeguatezze e timori, di colpo m’ero trovato in una dimensione nuova, tra Saint Germain des Près e il Bobourg, tra i Deux Magots e la mia pensioncina da artista. Mi sembrava di dover calcare le orme di utte le avanguardie novecentesche, di dover vivere di scandali e genialità, anche se in fondo continuavo a sentirmi smpre a disagio ovunque. In quei mesi avevo letto molto i surrealisti, immaginavo un’altra vita, un altro mondo. Ebbene, tornato a Roma, non ricordo come e perché entrai in contatto con un gruppo di giovanissimi poeti e pittori, i quali cercavano altre persone per aprire una galleria d’arte e forse anche una rivista. Pino Salvatori, Felice Levini, Mariano Rossano erano gli artisti, Claudio Damiani, Gino Scartaghiande, Giuliano Goroni e poi Beppe Salvia i poeti. Avevano trovato un locale in via Sant’Agata de’ Goti al quartiere Monti, e lì ci vedevamo per discutere di tutto e di niente. Intorno la città ardeva senza tregua, scontri, ferimenti, uccisioni, le parole astratte della politica trasformavano concretamente la vita di migliaia di giovani, spesso la stravolgevano. In mezzo alle macerie del tempo, Damiani parlava di Petrarca, di Leopardi, di Saba con la sua voce lieve, con parole che io non capivo bene. Ricordo una discussione su come organizzare lo spazio che avevamo affittato: io, ancora scioccamente parigino, proponevo chenella galleria d’arte ci fosse qualcosa di simile a un bar, come avevo visto attorno al Bobourg, di modo che l’ immaginazione si confondesse con la vita presente, e che tutto si sporcasse un poco in una confusione vivace. Damiani invece parlava di uno spazio concavo, bianco, puro che accogliendo il mondo intero gli desse una forma chiara. Non bisognava fare niente, solo imbiancare e aspettare che tutto lentamente si definisse, che l’imprecisione trovasse un motivo per quietarsi ed esprimersi. L’ebbrezza caotica di quegli anni, fatta anche di discorsi magniloquenti, a volte minacciosi e astrusi, doveva ritrovare una metrica e parole più semplici e vere, come insegnavano i latini e la poesia cinese. Non si doveva forzare le cose, solo accompagnarle. Io non capivo nulla, io volevo esagerare, spingere, inventare, Damiani invece voleva solo aderire ai limiti umani, poveri e sacri. Per me è stata una grande lezione. Quel ragazzo minuto sapeva cose che io non sapevo, stava già oltre i linguaggi distruttivi del Novecento, stava prima, stava nella poesia che nomina e salva, che raccoglie e consola.
***
Quella stagione ebbe il suo punto finale in un giorno di primavera del 1985, il giorno in cui Beppe Salvia si uccise. Avevamo partecipato tutti a Braci e a Prato Pagano, due riviste che oggi non si potrebbero neppure immaginare per quanto erano fragili e profonde, prive di ogni superbia ideologica, voce di un piccolo gruppo di ragazzi che s’ allontanavano dalla furia cieca dei linguaggi astratti per ritrovare la dolorosa dolcezza della lingua. Questa era la missione di quei fogli, all’inizio quasi francescani nella loro modestia, poi un po’ più eleganti, ma sempre distanti dal clamore e dalla protervia avanguardistica. Ricordo che Claudio e Beppe tenevano moltissimo alla forma grafica delle riviste: a guardare oggi quei nudi fascicoletti di Braci, è impossibile immaginare quanta attenzione ci fosse alla composizione delle pagine, quanta severità. Claudio leggeva Pascoli e Orazio e Caproni, sdegnava ogni moda letteraria, cercando una lingua che potesse parlare di ogni cosa senza mai tradire il vero. Guardavo a Claudio e Beppe come a due fari potentissimi: più nero Salvia, più chiaro Damiani. E anch’io a poco a poco mi spogliavo di ogni ridicola artificiosità, finalmente convinto della fragilità assoluta della vita, della sua tragica bellezza. Fu una lungastagione di ricerca, ognuno inseguiva la sua voce più autentica, anche se Claudio e Beppe restavano più avanti di tutti, così diversi eppure quasi fratelli nell’intransigenza verso ogni cedimento alla mediocrità ammantata di supponenza, verso il tempo nuovo che avanzava pesante e osceno come un carro armato coloratissimo. La mattina del funerale eravano tutti lì, sul piazzale del Verano, e credo che tutti provammo la stessa pena: Beppe era morto, ognuno si sentiva più solo e più inutile. Ci separammo definitivamente, la giovinezza era finita per sempre. Ma la poesia doveva continuare, caricandosi di maggiori responsabilità, lungo la strada ogni parola andava posata come un sasso, come un fiore. E il tema quasi taoistico della strada che esiste prima di ogni viandante e resterà dopo di lui, che conduce i passi di chi la rispetta e ne avverte l’intima energia, e con lei quasi si fonde, sarà costante in Claudio. Non ci sono scorciatoie, non ci possono essere deviazioni: bisogna solo andare, guardare, capire.
***
La poesia di Claudio Damiani ha un timbro e una sostanza immediatamente riconoscibili, perché afferra il cuore e perché viene da lontano – dal sempre, direi, se il sempre fosse una categoria letteraria. Certo, la classicità nutre questi versi come una madre fa con un figlio: non si tratta di colti recuperi di forme metriche e compositive, di un nobile omaggio alla tradizione, ma di un’adesione profonda allo spirito della poesia più vera, quella che non divaga e non si distrae in inutili acrobazie stilistiche, che non vuole scandalizzare o sorprendere grattando i nervi, ma che rimane costantemente fedele, persino nella sua metrica, al ritmo profondo dell’esistenza. Il ritmo dei versi è il respiro profondo e ciclico della vita, e le immagini di un uomo nella natura non pretendono di scavalcare un destino comune o peggio ancora di maledirlo in nome di una superiorità intellettuale: qui siamo esattamente dentro il percorso di un’emozione che sa quanto la vita sia breve e sacra, come quella di una foglia o di un gatto, come ogni vita che appare, partecipa e scompare. “Che bello che questo tempo/ è come tutti gli altri tempi,/ che io scrivo poesie/ come sempre sono state scritte” dice Damiani in una poesia che ha la potenza lieve della verità, “Che bello che questo tempo, come ogni altro tempo, finirà,/ che bello che non siamo eterni,/ che non siamo diversi/ da nessun altro che è vissuto e che è morto,/ che è entrato nella morte calmo/ come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto/ e poi, invece, era piano.” Il tema della morte resta centrale nell’opera di Damiani, sembra quasi che tutto il percorso di Claudio sia mosso dalla necessità di amare i giorni della vita proprio perché corti e destinati all’oblio, di amarli nonostante la consapevolezza della fine. Una grande compassione lega Damiani alle creature del mondo, non c’è bisogno di andare via dalla propria terra, di moltiplicare incontri ed esperienze per scoprire l’evidenza di una legge naturale, tanto crudele quanto ineludibile: anche la storia di un gatto, anche le foglie gialle portate dalla corrente di un fiume, anche una casa che lentamente si sfascia raccontano la nostra essenza temporale. Siamo fratelli perché siamo fatti degli stessi minuti che fuggono, di rovine, di fragili speranze pronte a subire la condanna delle stagioni: “E anche sentivo che non c’erano differenze/ neanche sui tempi, nel senso che uno moriva prima e uno dopo,/ ma tutti insieme andavamo incontro alla morte/ come tenendoci per mano, cantando,/ con i capelli profumati, col capo cinto di fiori”. Una sola dolce e spietata catena-ghirlanda lega tutti gli esseri presenti e passati, tanto che il passato diventa altrettanto intenso del presente, e Damiani lo cerca, lo interroga, lo accarezza come un tempo concluso ma proprio per questo capace di far sentire tutta la sua terrena perfezione. L’isola d’Elba, casa dei padri, diventa allora la patria, perché lì tutto appare concentrato, contenuto dall’azzurro del mare e del cielo, poeticamente chiaro nella lontananza. Ciò che nell’oggi sembra disperso, contraddittorio, amaro, ciò che la nostra vita non riesce ancora a riconoscere come luogo sacro del dimorare, nell’isola ritrova il senso di unità, proprio come un libro che si è chiuso e al quale nessuna pagina si può più aggiungere o togliere, e tutto è necessario perché tutto è stato: “Noi siano tutti uniti. Quando tu morirai/ ci troverai tutti qui, ognuno che hai conosciuto/ lo rivedrai uguale, e questa terra a te cara/ la ritroverai intera. Tanto più l’avrai amata,/ tanto più la ritroverai identica,/ tanto più l’avrai sentita come tua patria,/ tanto più sarai vicino ai padri.”. Amo i libri di Damiani come cose vive, tremanti, generose nella coscienza del limite: confesso di aver talvolta baciato queste pagine come amiche sincere che sul bordo di un addio ci dicono le cose più importanti, con il tono pacato di chi non ha più nulla da nascondere, nulla da abbellire con i fiocchi della letteratura. E’ una poesia grandissima perché va al cuore del problema, là dove la vita e la morte si guardano negli occhi e si riconoscono come parti del tutto. Damiani qualche volta sogna un’eternità che comprenda il prima e il poi, l’ora in cui ancora non eravamo e quella in cui forse ci ritroveremo senza più dolore: si intuisce che è un desiderio cristiano che si scontra con una più convinta visione classica, dove l’aldiquà e l’aldilà sono ipotesi poetiche che servono semplicemente a rafforzare l’accettazione dello scorrere perenne del presente. Solo l’amore del qui e ora, del suo infinito e fermo divenire, può salvarci, secondo Damiani. I figli sono come i padri, piccole foglie che devono verdeggiare e poi serenamente staccarsi dall’albero, affinché l’albero continui a vivere. “Ho la sensazione che tutto sia distrutto/ e tutto sia intero, perfetto”: ecco, in questi due versi si racchiude molta della poesia di Damiani, malinconia e consolazione, un dolore grande e la convinzione ancora più grande che, nonostante le apparenze, tutto abbia un senso, tutto sia collegato in un destino preciso, tutto vada verso la rivelazione di una qualche felicità, che sembra impossbile e invece forse è a portata di cuore. Queste poesie non solo ci convincono nella loro distesa purezza, ma per un poco almeno ci rendono migliori, come la grande poesia fa sempre, perché ci mettono in contatto con il centro della vita, vita che si disperde ovunque, che si ammala, soffre e scompare nella storia individuale e collettiva, ma che contiene un nocciolo fermo, fecondo come l’amore.