Claudio Giambene è l’ultimo vincitore del Premio nazionale di giornalismo sportivo “Sergio Pannocchia”. Lo ha vinto con questo articolo su un pilota che “morì il giorno prima di Ayrton Senna nel tragico weekend di Imola del 1994. Una vita nelle retrovie, fra circuiti minori e delusioni. Storia di un pilota e del suo sogno infranto”. Non che segua pedissequamente i bandi e gli esiti dei concorsi, anzi: Claudio è un ragazzo con cui condivido la provincia d’origine e quell’istinto che ti porta appena possibile fuori dalle mura domestiche; lo conosco da anni per via della comune passione per il basket e dell’amicizia tra i nostri genitori, ogni tanto leggo qualche suo articolo, ha scelto la strada del giornalismo e gli si addice, come si evince dalla lettura di questo brano. Vi invito a leggerlo sul Reporter Nuovo da cui ho preso anche questo testo (per il link originale clicca qui, proprio su queste parole sottolineate) e lo ringrazio perché questa storia non la conoscevo proprio ed è proprio una di quelle vicende che piacciono a me: dimenticate, sfigate e dotate di una bellezza implicita e particolare, forse perché ci testimonia – noi, i non destinati a essere star di questo o quello – più di qualsiasi campione, quale Ratzenberger non è mai stato. È stato molto altro come qualsiasi essere umano e per qualche lettore forse persino qualcosa di più.
C’era il sole quel sabato a Imola. Era il 30 aprile del 1994. C’erano i sorrisi, le bandane in testa, le magliette attorcigliate alla vita. E i vessilli. Un mare di bandiere rosse che in quell’angolo di Emilia significano tradizione, non rivoluzione.
Quel fine settimana passava il circo. Mica quello con gli animali ammaestrati o i pagliacci con la parrucca e i piedi lunghi. No. Il “circus” della formula uno. Tutt’altra cosa per chi è cresciuto col cavallino rampante tatuato nell’anima. Nessun elefante in equilibrio precario o scimmietta col cappello in mano. Tanti funamboli che, anziché camminare sopra un filo, corrono a 300 all’ora inseguendo il proprio limite. Domatori di cavalli rombanti e di emozioni. Chiusi nella gabbia del proprio abitacolo. Una gabbia che significa libertà.
I piloti sono persone speciali. Legano il loro destino a un mezzo. Indossano una tuta e un casco. E vanno in guerra. Contro il tempo, contro se stessi, contro gli avversari. La loro arma è il piede destro. Il cronometro è il rivale più temuto.
Ci sono i predestinati, gli eroi, le leggende. Ma non sono tutti così. Alcuni di loro hanno guidato qualsiasi vettura, lontano dai riflettori, pur di arrivare a correre in un gran premio di Formula Uno.
Roland Ratzenberger è uno di quelli. Quel giorno di fine aprile era al suo terzo gran premio. Un ragazzone austriaco approdato nell’Olimpo delle corse solo a 33 anni, proprio in quel 1994. Aveva passato la vita cercando di farsi notare nei circuiti minori. Sfidava i cronometri e anche l’anagrafe. Era nato a Salisburgo nel luglio del 1960, ma diceva di essere del ’62. Temeva che lo considerassero troppo vecchio per guidare una monoposto. Ma quell’anno ci riuscì. La Simtek, neonata scuderia inglese, gli aveva affidato il volante di una delle due auto. L’altra era stata assegnata a David Brabham, australiano, figlio del tre volte campione del mondo Jack, co-proprietario della squadra.
Roland si era messo in luce correndo in Giappone su auto da turismo e prototipi. Confinato nell’Estremo Oriente, un giorno aveva chiesto a un giornalista britannico se poteva riportare, in cambio di una piccola somma di denaro, l’eco delle sue gesta sportive nel Vecchio Continente. Ingenuo e guascone, non smetteva di credere in un sogno che alimentava affannosamente. Nel ’91 c’era andato vicinissimo. La Jordan lo voleva, a condizione che pagasse lui. Aveva trovato uno sponsor, che all’ultimo però si tirò indietro.
Nel ’94, invece, pur dovendosi accollare molte spese, era arrivato il suo momento. Per convincere il direttore sportivo della Simtek delle sue abilità, aveva noleggiato una Ford Fiesta. Sì, una Ford Fiesta. Del resto, si sentiva sicuro su quell’auto. Aveva gareggiato per anni in Inghilterra nella Formula Ford ottenendo discreti risultati. Quel giorno ottenne il risultato più prestigioso: un contratto di cinque gare in Formula 1.
L’inizio fu molto complicato. Nei test effettuati a marzo a Imola, la Simtek di Roland era un vero disastro. Lenta, nervosa, difficile da controllare. Le gare erano alle porte. E arrivarono.
All’esordio in Brasile non si qualificò. All’epoca accedevano alle prove 28 vetture, ma solo 26 partecipavano alla gara della domenica. La piccola scuderia inglese duellava con i connazionali della Pacific Racing per occupare gli ultimi posti in griglia. Uno scontro fra poveri. Da una parte Brabham e Ratzenberger, dall’altra Gachot e Paul Belmondo, figlio di Jean Paul, attore caro a Godard.
Nella seconda corsa, in Giappone, Roland corre il suo primo gran premio. Parte dall’ultima posizione, ma in gara, grazie alle disavventure di chi lo precede e alle esperienze nipponiche del recente passato, chiude all’undicesimo posto. Michael Schumacher, vincitore con la sua Benetton, lo doppia, per cinque volte. Roland è contento, ma sa di poter fare meglio.
Lo confessa ad alcuni giornalisti che si aggirano fra i box di Imola. È la sua terza gara, ma se non ottiene buoni risultati potrebbe anche essere la terz’ultima. Roland parte deciso. È un tracciato difficile. Enzo Ferrari, l’uomo al quale è intitolato l’autodromo, lo chiamava “il piccolo Nurbürgring”, paragonandolo alla temutissima pista tedesca. Un circuito collinare, denso di insidie. I primi quattro giri di Ratzenberger sono abbastanza deludenti. Deve spingere. L’importante è partecipare. Non c’entra De Coubertin. Conta la voglia di gareggiare il giorno dopo, lottando nelle retrovie, accettando di arrancare contro i bolidi pur di tagliare la bandiera a scacchi. Alla chicane delle Acque Minerali la sua Simtek tocca un cordolo. Lo fa nel tentativo di tagliare la curva, per cercare di rosicchiare qualche decimo prezioso. Potrebbe aver danneggiato la vettura, ma non se ne cura. Nel suo sesto giro vuole fermare quelle lancette prima possibile.
Oltrepassa la Variante Bassa, la zona in cui nella prima giornata di prove si era schiantato il pilota della Jordan, Rubens Barrichello. Senza gravi conseguenze, miracolosamente. Addirittura, passata la paura per l’incidente del collega, Ratzenberger può persino vedere un lato positivo: la defezione del brasiliano libera un posto in gara. Gli basterà non fare il peggior tempo. La monoposto numero 32 sfreccia sul traguardo. Forse per un attimo Roland gli dà appuntamento al giorno dopo. Supera la curva del Tamburello, un nome destinato nei giorni successivi a fare il giro del mondo, smarrendo l’evocativa allegria della pronuncia.
Il momento dell’impatto Il momento dell’impatto
Deve affrontare un altro curvone. Si chiama Villeneuve, in onore a Gilles, l’ex pilota della Ferrari morto nel 1982 a Zolder in Belgio. Pochi metri più in là, alla Tosa, c’è un monumento che lo ricorda. È in quel tratto che termina la corsa di Roland Ratzenberger. Su quel cordolo aveva rotto i pilastri a sostegno dell’alettone anteriore. Volato via quello, la Simtek diventa una scheggia impazzita. Si schianta su un muro, a 316 chilometri orari. La via di fuga, alla curva Villeneuve, è lunga sette metri. Provate a fare sette lunghi passi, come si faceva una volta per posizionare il pallone, prima di battere un rigore per strada. Solo immaginare la potenza di quell’urto, a quella distanza, mette i brividi.
“Ho un ricordo tetro di quel momento”- ci racconta Giovanna Amati- una delle pochissime donne della storia ad aver corso in Formula Uno. “Ero alla Tosa con Jean Alesi (pilota della Ferrari che non corse quel gran premio per un problema al collo ndr). Ci guardammo e corremmo verso il paddock. Avevamo capito, anche se speravamo di sbagliarci. Quel rumore a pieni giri del motore, l’impatto e il silenzio che calò sull’impianto sono sensazioni che non si possono dimenticare”. La Simtek blu gira come una trottola sul tracciato. Dall’abitacolo spunta il casco biancorosso del pilota austriaco. La testa è inclinata sulla sinistra. Roland è privo di sensi. Perde sangue dal naso e dalla bocca. L’angelo custode dei piloti, Sid Watkins, medico storico delle gare del circus, accorre. Prova a rianimarlo. Dai box Ayrton Senna, il primo della classe, guarda le immagini dal monitor. Fa una smorfia. E scappa. Si fa portare sul luogo dell’incidente. Cerca di capire, di essere utile, con tutta l’umanità che ne ha contraddistinto una carriera costellata di allori. Guarda l’elicottero alzarsi in volo. Roland Ratzenberger, l’ultimo arrivato, muore prima di arrivare all’ospedale di Bologna. Quando Senna arriva là, può solo prendere atto del decesso.
Il giorno dopo Ayrton parte dalla pole. L’ottava su dieci gare a Imola. Nessuno ha mai fatto meglio. Sulla linea di partenza ha lo sguardo perso. Aspetta fino all’ultimo prima di mettersi il casco. Dà quasi l’impressione di voler correre via. Il giorno prima, dopo la morte di Ratzenberger, il dottor Watkins lo aveva quasi implorato: “Ayrton, sei stato tre volte campione del mondo, hai dimostrato di essere il più forte, il più veloce. Molla tutto e andiamo a pescare”.
“Ci sono cose su cui non abbiamo controllo. Non posso lasciare, devo andare avanti” aveva risposto il campione di San Paolo. Sid capì. Poco dopo toccherà a lui tirarlo fuori dalla Williams che era andata a sbattere al Tamburello. Nella manica di una tuta, i soccorritori trovarono una bandiera austriaca. Avrebbe voluta sventolarla nel giro d’onore. L’omaggio di uno dei più grandi della storia all’ultimo arrivato. Si ritroveranno vicini nell’obitorio. Nel gran premio successivo, a Monaco, la prima fila viene ricoperta da una bandiera brasiliana e da quella austriaca. A Roland forse non sarebbe mai successo di stare così vicino a Senna su un circuito.
“O si smette di piangere, o si smette di correre”, diceva Enzo Ferrari. Asciugate le lacrime, il circo ripartì. Senza dimenticare.